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Piercamillo Davigo fece «un uso privato» dei verbali segreti di Piero Amara, ex legale esterno di Eni e autore della bufala sulla loggia Ungheria. Obiettivo: colpire il suo ex amico Sebastiano Ardita, svelando agli altri consiglieri del Csm la sua presunta appartenenza a quella che lui stesso ha definito la nuova P2.
È questa la convinzione della procura di Brescia, che ha chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi - pena sospesa - per l’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione e utilizzazione di segreto. Sua colpa quella di aver fatto circolare i verbali di Amara, consegnatigli dal pm milanese Paolo Storari per “sbloccare” le indagini, a suo dire, tenute ferme strumentalmente dai vertici della procura meneghina. Un’arringa pesante, quella pronunciata dai magistrati di Brescia nei confronti dell’ex magistrato. Che, ha affermato il pm Donato Greco, «si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l'unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po' di tempo vanno a finire sui giornali».
Sarebbe stato lui, secondo la procura, ad indurre in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso», ha affermato il pubblico ministero rivolgendosi ai giudici della prima sezione penale, presieduta da Roberto Spanò: «Se gli avesse detto la verità - ha continuato il pm -, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato», dal quale comunque è stato assolto in abbreviato. Tant’è che è stato lo stesso imputato, nel corso del suo esame, ad ammettere tale circostanza, ha spiegato il pm, secondo cui «non c'è nulla di potenzialmente legittimo» nella tra Davigo e Storari.
L’ex consigliere del Csm avrebbe dunque agito sulla base di una «concezione privata di prerogative e funzioni dell'organo» consiliare di Piazza Indipendenza, ostentando la convinzione che «“siccome io sono membro del Csm, posso sempre e comunque esercitare le prerogative dell'organo di cui faccio parte”», ha spiegato il pm Francesco Milanesi. «Sarebbe consolante - ha aggiunto - affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti. Purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa».
La procura ha chiesto di ritenere Davigo colpevole per tutti gli episodi di rivelazione uniti dal vincolo della continuazione, dando però parere favorevole alle attenuanti generiche per «l'irreprensibile comportamento processuale». Che non toglie, secondo la procura, la responsabilità per un reato grave per un magistrato d’esperienza con lui, ritenendo il fatto più grave quello di aver rivelato il contenuto dei verbali all'ex parlamentare del Movimento 5 Stelle Nicola Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità del segreto agli altri membri del Csm, ai quali Davigo ha svelato la presunta appartenenza di Ardita - parte civile nel processo - alla fantomatica loggia, niente motiverebbe l’aver rivelato anche a Morra, amico di entrambi, tale circostanza. Il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato. «Un'interpretazione arbitraria» delle circolari dietro le quali si è trincerato sin dall’inizio per ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita».
Nel caso di Davigo, lo scopo non era l’esercizio di poteri pubblici, ma quello di assecondare «esigenze private di gestione e influenze di rapporti e dinamiche all'interno del Csm», mettendo in guardia i colleghi «da un potenziale massone», ovvero Ardita. Concetto ribadito dal difensore di quest’ultimo, Fabio Repici, secondo cui l'unico fine dell’imputato «non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita - ha detto il legale -. Per Davigo si vuole evitare che Ardita apprenda dei verbali di Amara. Lo hanno saputo tutti tranne lui e il suo “gemello diverso” Nino Di Matteo. La verità è più semplice del gioco di luci stroboscopiche tentato dall'imputato. O la legge è uguale per tutti - ha concluso - oppure quello che vi si chiede dall'imputato è l'assoluzione del reo confesso. Non fate fare questo salto degenere alla giurisdizione. Non ho mai creduto ai giudici che sostengono che gli “imputati assolti sono colpevoli che l'hanno sfangata”, però almeno i reo confessi, seppur con una toga addosso, si deve avere il coraggio di condannarli».
Prima della requisitoria, è stato ascoltato l’ex primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, che ha raccontato di aver saputo anche lui della Loggia - ma non dei verbali - da Davigo, tanto da far valere all’imputato un nuovo capo di imputazione. Agli inizi di settembre 2020, ha raccontato, Davigo «mi aspettò nel parcheggio all'interno del Csm e mi parlò della vicenda Amara spiegandomi che stava collaborando con la giustizia, di questa cosiddetta Loggia Ungheria e che venivano indicate una serie di persone tra le quali due componenti del Csm: Mancinetti e Ardita - ha raccontato -. Mancinetti si dimise poco dopo mentre verso Ardita tenni un atteggiamento di prudenza, di considerazione attenta verso le sue scelte, ascoltare con attenzione quello che diceva e nei rapporti personali con lui per un po' di tempo fui più trattenuto mentre con altri ero più sciolto».
Davigo, nell’ottica di Curzio, all’epoca appena insediato nel ruolo di primo presidente, «volle preannunciarmi che probabilmente il Csm sarebbe stato ancora sottoposto a un ulteriore trauma. Interpretai questa cosa come un gesto di attenzione nei miei confronti qualora avessi dovuto affrontare la questione». Nonostante fosse componente del Comitato di presidenza, Curzio mantenne il silenzio su quei fatti, «per evitare di compromettere le indagini». Tant’è che Davigo «non mi sollecitò a formalizzare in alcun modo la situazione, questo me lo spiego con il fatto che formalizzandola avrebbe voluto dire passare la questione a una serie di persone, tutte serie e sottoposto a riserbo investigativo, ma tante e in una fase così iniziale di verifica della credibilità» delle rivelazioni di Amara, «formalizzarla avrebbe creato grossi problemi a quello che a mio parere era l'interesse base: l'efficacia delle indagini». Efficacia compromessa proprio da quel chiacchiericcio incontrollato provocato dalle rivelazioni di Davigo.