A Palermo, su di lui, pare ci fosse un veto: mai e poi mai avrebbe guidato la procura del compianto Giovanni Falcone. Per questo dopo 30 anni trascorsi nel Palazzo di Giustizia del capoluogo siciliano alla fine dovette accontentarsi dell’altro lato dello Stretto, Reggio Calabria, la città che segnò l’inizio della sua fulminante carriera.

Giuseppe Pignatone, uno degli uomini più vicini al procuratore Pietro Giammanco, non era certo un amico di Falcone, che nei suoi diari, pubblicati dopo la strage di Capaci dalla giornalista Liana Milella, gli riservava parole tutt’altro che di stima. Fu proprio il dossier “Mafia e appalti”, per il quale oggi è indagato, l’origine delle sue disgrazie.

Nel 1997, quando ancora si trovava a Palermo, la procura di Caltanissetta indagò su di lui, Giammanco, Guido Lo Forte e Ignazio De Francisci per i reati di abuso e corruzione di atti giudiziari. Fu un collaboratore di giustizia, Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina”, a puntare il dito contro di lui, sostenendo che i tre magistrati lo avevano aiutato facendogli arrivare il rapporto sugli appalti elaborato dal Ros nel 1991. La vicenda si chiuse nel 2000: in assenza di riscontri alle parole di Siino, il fascicolo fu archiviato.

Nello stesso anno, Pignatone diventò procuratore aggiunto, al fianco di Piero Grasso, futuro procuratore nazionale antimafia e poi presidente del Senato. Una carriera, quella di Pignatone, segnata da inchieste destinate a fare la storia, nel bene e nel male, come quella su Totò Cuffaro, messo sotto indagine nel 2003, quando era presidente della Regione Sicilia, e poi condannato a 7 anni per aver favorito Cosa Nostra.

E, soprattutto, l’arresto del superboss latitante Bernardo Provenzano, eseguito dai suoi fedelissimi - i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri e dal dirigente della Squadra Catturandi Renato Cortese - l’11 aprile 2006. Era quella la carta che Pignatone voleva giocarsi per conquistare la poltrona di Palermo. Ma proprio in quello stesso anno il Csm gli negò quella gioia, preferendogli Francesco Messineo.
Gli toccò l’altro lato dello Stretto, dunque, Reggio Calabria, dove una criminalità organizzata sempre più pervasiva e ricca aveva ormai scavalcato Cosa nostra in potere e prestigio mafioso. Ed è lì che il 13 luglio 2010 ha realizzato il suo capolavoro, quell’operazione “Crimine” che mirava a dimostrare l’esistenza di una cupola mafiosa calabrese sul modello palermitano.

Alla fine la tesi resse: la ’ndrangheta unitaria venne certificata dalle sentenze, anche se non pesanti come ci si aspettava. E nessuno, alla fine, credette mai del tutto che a capo della più potente criminalità organizzata del mondo potesse esserci davvero un semplice fruttivendolo, Domenico Oppedisano. Quell’operazione spianò però la strada verso la procura più importante d’Italia, quella di Roma. Una scalata segnata anche da episodi oscuri: il ritrovamento di un bazooka davanti alla sede della procura reggina, intercettato il 5 ottobre 2010 a seguito di una telefonata anonima, e mesi prima quello di un’auto imbottita di armi ed esplosivo lungo il percorso della visita dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E il Capo dello Stato, a marzo 2012, si presentò addirittura a quello che allora si chiamava Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, che all’unanimità lo incoronò nuovo procuratore di Roma. Un evento più unico che raro.
Nella Capitale Pignatone provò a ripetere il miracolo “Crimine”, con un’inchiesta - “Mafia Capitale” - che nel suo nome portava già la sentenza: dimostrare l’esistenza della mafia a Roma. Era il 2 dicembre 2014, nel mirino c’erano gli intrecci tra criminalità mafiosa e politica nel Comune di Roma. In manette finirono 37 persone, esponenti del centrodestra della giunta Alemanno, esponenti del Pd e membri del consiglio comunale di centrosinistra.

La sentenza di Cassazione, nel 2019, certificò però “solo” l’esistenza di un grande sistema corruttivo, ma nulla a che vedere con la mafia. Quella teoria investigativa cambiò di fatto le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”. Ma non trovò riscontri. Pignatone, però, al momento della sentenza era già in pensione: il 9 maggio 2019 ha lasciato infatti la poltrona per raggiunti limiti di età. La stessa sera, all’Hotel Champagne, si consumò casualmente il più grande scandalo della magistratura italiana, il caso Palamara. Finito anzitempo, pochi giorni dopo, misteriosamente sui giornali. Uno scandalo che tagliò le gambe al successore in pectore di Pignatone, Marcello Viola, citato quella notte a sua insaputa come “prescelto.”

E che spianò la strada alla nomina del braccio destro di Pignatone sia a Reggio Calabria sia a Roma: quel Michele Prestipino che lo sostituì fino a nomina ufficiale. La sua investitura da parte del Csm, però, fu spazzata via dal Consiglio di Stato: Francesco Lo Voi, scrisse Palazzo Spada, aveva più titoli di lui. Quella nomina era da rifare. E alla fine Prestipino dovette cedergli la poltrona. Pignatone, nel frattempo, ha preso una strada nuova: il 3 ottobre 2019 è arrivato alla Corte di Papa Francesco, che lo ha nominato presidente del Tribunale di prima istanza dello Stato della Città del Vaticano. Dove è tornato su un caso che aveva già seguito: la scomparsa di Emanuela Orlandi.
Ora, però, è costretto a tornare in Sicilia. Non come avrebbe voluto, ma da indagato. E a distanza di 27 anni da quella prima indagine, Palermo e le sue storie tornano prepotentemente nella sua vita.