Il gran rifiuto di Tommaso Perna, il gip che ha respinto la richiesta di misure cautelari per 142 persone avanzata dalla procuratrice aggiunta di Milano Alessandra Dolci e dalla sostituta Alessandra Cerreti, non è un’azione peregrina che crea una novità assoluta nel panorama giudiziario. E trova anzi la sua più grande conferma in una sentenza che ha fatto storia, ovvero quella del processo “Mafia Capitale” (rectius: Mondo di mezzo). Un processo che è servito a chiarire un concetto: se tutto è mafia, nulla è mafia.

Torniamo all’accusa: secondo le due toghe, che hanno presentato ricorso in appello, la scelta di Perna (che non segna di certo la fine dell’inchiesta, ma questo sembra non contare) riporterebbe le lancette indietro di 30 anni nella lotta alla criminalità organizzata. «Relegare la manifestazione mafiosa di permeazione del tessuto economico alla presenza o meno di attività violente, vale una retrocessione trentennale nell'evoluzione giudiziaria e investigativa», scrive la procura. Che intanto ha dimezzato le richieste d’arresto, presentando ricorso per i soli 79 indagati accusati dei reati più gravi.

Non è in discussione - e sicuramente non lo è nemmeno per il gip  - la presenza delle mafie al nord, che è accertata, sin dagli anni ‘80 e ‘90, da plurime sentenze. Bisogna rispolverare, però, la sentenza della Cassazione che ha stroncato la tesi di “Mafia Capitale” per capire quanto Perna si sia solo affidato alla giurisprudenza per scrivere il proprio provvedimento: a Roma non c’era mafia perché non c’era metodo mafioso, non c’era intimidazione, solo corruzione e patti scellerati tra persone libere. Per poter parlare di 416 bis, si leggeva in quella clamorosa sentenza, è necessario che il gruppo «abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione». Non basta «la mera probabilità», bisogna dimostrare che il gruppo quella forza la possegga e che l’abbia usata. È necessario che tale forza «derivi dall’associazione in sé e non dal prestigio criminale del singolo associato» e che tale capacità «produca assoggettamento omertoso». E bisogna fornire una prova concreta di tali elementi. Nelle 5mila pagine portate dalla procura a Perna, al quale solo dopo il deposito dell’ordinanza è stata consegnata una memoria integrativa che citava sentenze e pentiti, tali elementi - stando all’ordinanza - non ci sarebbero stati.

La procura, nel suo ricorso in appello, nega di aver voluto contestare «una super associazione mafiosa composta dalle tre mafie italiane», ma «mere “componenti” delle tre tradizionali che sul territorio milanese si alleano strutturalmente tra loro per aumentare possibilità di profitto». Eppure è proprio la procura ad affermare di aver ricostruito come «le singole componenti abbiano dato vita ad un’unica associazione, all’interno della quale ciascuna componente mafiosa ha apportato capitali, mezzi (mobili ed immobili), risorse (anche umane), background, reti relazionali e quant’altro fosse necessario all’associazione stessa e funzionale alla sua nascita, al suo sviluppo ed alla sua affermazione sul territorio». E pur nel rispetto dei legami con le cosche d’origine, scrivevano, «questa eterogenea associazione gode di propria organizzazione, di un proprio ed autonomo programma, di proprie regole e ritorsioni per chi le viola».

Per analizzare la questione si può far ricorso anche alla sentenza pronunciata a Sezioni Unite sulla cosiddetta “mafia silente”, la numero 36958 del 2021 (tra gli estensori anche l’attuale presidente Margherita Cassano), secondo cui il giuramento di mafia non basta a provare la partecipazione al sodalizio criminale: gli atteggiamenti antropologico-culturali (giuramenti, riti di affiliazione eccetera) possono essere sì sintomatici, ma è necessario trovare elementi di riscontro relativamente all’estrinsecazione della violenza mafiosa. Secondo i giudici, occorre «riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso», in ossequio ai principi di materialità e offensività. «Forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà costituiscono altrettanti elementi necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di cui all'art. 416-bis c.p. associativo», continua la sentenza, secondo cui «cardine della fattispecie è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non è, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà».

Si tratta «di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l'organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all'associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sè, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente». Per i giudici, dunque, è «necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti». Tutte cose che Perna, in quella richiesta, non ha trovato.