Altro che le quattro vite in 75 anni di età che Salvatore Merlo ha attribuito ad Antonio Di Pietro raccogliendone sul Foglio le confidenze in una giornata trascorsa con lui in campagna. In un posto del Molise che non compare «neppure nelle mappe di Google». Come lo stesso Di Pietro aveva spiegato al vice direttore del Foglio dandogli appuntamento in un’altra località mappata, dove sarebbe andato a prelevarlo di persona per portarlo a casa. E raccontarsi a cuore aperto, seduto fra una zappa e un vecchio e ingiallito codice penale, Che “Tonino”, per gli amici, ma anche per il pubblico che sfilava una volta in corteo per lui, sfoglia ancora non più da magistrato ma da avvocato. Delle poche cause, mi è sembrato di capire, di cui accetta di occuparsi perché gli “interessano”. O, ancora di più, gli piacciono.

Altro che le quattro vite, dicevo, che lo stesso Di Pietro ha sintetizzato raccontandosi come magistrato, politico, avvocato e imputato, uscito sempre assolto, sia pure con qualche urticante giudizio sul suo stile. Assoluzioni che gli hanno procurato anche un po’ di denaro pagato dai malintenzionati avventuratisi ad attaccarlo, e persino a tramare contro di lui.

Le vite di Di Pietro sono almeno il doppio di quattro, mancando o solo sottintendendo, o facendole intravvedere, l’infanzia trascorsa, sempre in campagna come adesso, ma fra le tessere d’iscrizione dei genitori alla Dc e ai collaterali coltivatori diretti. E poi quella di emigrato in Germania, da dove mandava i risparmi di falegname, operaio e quant’altro alla madre, che morendo glieli avrebbe fatti ritrovare moltiplicati in buoni di Stato. E poi ancora la vita di poliziotto, per non parlare di quella brevissima di segretario comunale.

Tutte vite - si è vantato Di Pietro, pur dimezzandole- trascorse senza indossare una sola “camicia rossa”, pere quante gliene avessero attribuite tante quando era il magistrato di punta, più famoso e esposto, delle già citate “Mani pulite” per sospetti favori, riguardi, distrazioni verso i comunisti. Che lui invece si vanta ancora di avere indagato e fatto arrestare come e forse ancora più degli altri. Ma se la cavarono meglio perché “più bravi”, come già una volta lo stesso Di Pietro, ormai ministro, riconobbe a Massimo D’Alema. Che di recente lo ha raccontato con orgoglio partecipando alla rappresentazione di un libro.

D’altronde, prima che scoppiasse la vicenda Tangentopoli, quando personalmente lo conobbi a Milano pranzando con lui, con Fedele Confalonieri e il comune amico architetto Claudio Dini, che poi avrebbe fatto arrestare; d’altronde, dicevo, quando lo conobbi i cronisti giudiziari ne parlavano come di un uomo di destra con qualche simpatia personale per l’allora sindaco socialista di Milano, e comune amico anche lui, Paolo Pillitteri. Tanto di destra da essersi vantato di non avere aderito ad uno sciopero indetto dai magistrati lasciando aperto il suo ufficio in Procura, a Milano, e guadagnandosi l’attenzione e poi anche l’amicizia, almeno per un certo tempo, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Contro il quale peraltro era stato proclamato quello sciopero, nonostante egli fosse anche non per scherzo o capriccio ma sul serio, per dettato costituzionale, presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura.

E meno male che allora non si sapeva quello che Di Pietro ha raccontato al vice direttore del Foglio dei rapporti col suo superiore Francesco Saverio Borrelli. Al quale dava rispettosamente non del Lei, ma del Voi. Del fascistissimo Voi, certificherebbe anche Antonio Scurati. Del resto, a “Mani pulite” ancora in corso, a suggerire all’appena incaricato Silvio Berlusconi la nomina di Antonio Di Pietro a ministro, in particolare dell’Interno, furono gli uomini dell’ancora Movimento Sociale, che avevano proposto anche Pier Camillo Davigo, pure lui della scuderia giudiziaria di Borrelli, al Ministero della Giustizia. Dove ora siede Carlo Nordio, pure lui ex magistrato, di cui Di Pietro condivide la riforma per la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri.