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IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Solo qualche mese fa, per la precisione all'inizio di maggio, Giorgia Meloni sventolava ramoscelli d'ulivo di fronte alla magistratura organizzata. A chi dall'opposizione la accusava di voler fare una riforma punitiva, aveva risposto che «uno si vendica di qualcuno che ha fatto qualcosa di male ma io non considero la magistratura un nemico». Negli stessi giorni, il Guardasigilli Nordio aveva presenziato al congresso dell'Anm ribadendo che «l'indipendenza della magistratura giudicante e requirente è un principio non negoziabile» e che «una contiguità col potere esecutivo è inimmaginabile».
Le cose hanno iniziato a mutare dalla fine dello stesso mese, quando il Consiglio dei ministri, dopo mesi di suspense, ha approvato il ddl costituzionale contenente le nuove norme sulle carriere, sull'elezione del Csm e sull'Alta Corte. Di fronte a questo atto ufficiale l'associazione delle toghe ha cambiato registro, assumendo degli atteggiamenti più severi nei confronti della maggioranza, che associati ad alcune decisioni e sentenze di più di un tribunale, hanno fatto precipitare la situazione.
E il fatto che fino a quel momento persistesse la volontà di non andare al muro contro muro è testimoniato dalla prudenza con cui Meloni, seppure critica nei confronti delle scelte delle toghe, aveva trattato l'inchiesta e l'arresto (ai domiciliari) del governatore della Liguria Giovanni Toti, poi dimessosi. «Aspettiamo, vediamo cosa ha da dire e ascoltiamolo», aveva affermato la premier, privilegiando i toni garantisti rispetto allo scontro coi magistrati.
A estate inoltrata, però, un articolo del direttore del Giornale Alessandro Sallusti su un possibile avviso di garanzia per Arianna Meloni, sorella della premier, dovuto a presunto traffico di influenze, cambia decisamente il mood, perché la presidente del Consiglio avalla la lettura del giornalista ed evoca le vicissitudini giudiziarie di Silvio Berlusconi: «Se fosse vero che ora sono passati alla macchina del fango e alla costruzione a tavolino di teoremi per sperare in qualche inchiesta fantasiosa contro le persone a me più vicine, a partire da mia sorella Arianna, sarebbe gravissimo», aveva scritto sui social Meloni da Ceglie Messapica, dove era in vacanza. «D’altronde», aveva aggiunto, «è uno schema visto e rivisto soprattutto contro Silvio Berlusconi: un sistema di potere che usa ogni metodo e ogni sotterfugio pur di sconfiggere un nemico politico che vince nelle urne la competizione democratica».
Da quel momento in poi, forse complice l'avanzamento dell'iter della riforma in Parlamento (dove nel frattempo era stato messo a punto il calendario delle audizioni), i toni si sono alzati, fino a tratteggiare una vera e propria escalation tra le parti. Da questo punto di vista, lo spartiacque è recente ed è datato 18 ottobre, data della sentenza con cui la sezione immigrazione del tribunale di Roma non convalida il trattenimento nel Cpr di Gjader, in Albania, di alcuni migranti egiziani e bengalesi, perché ad avviso dei giudici i paesi di provenienza non possono essere considerati sicuri.
La sentenza, rifacendosi all'interpretazione di un pronunciamento della Corte di giustizia Ue, smontava quello che per Meloni rappresenta il fiore all'occhiello della politica migratoria del nostro paese, e cioè l'accordo con Tirana. Che proprio un paio di giorni prima era stato al centro di una riunione di 11 paesi a margine del Consiglio Ue, alla quale era presente anche Ursula von der Leyen, molto ben disposta verso questa soluzione. Stavolta le parole di Meloni e di Nordio sono state decisamente meno concilianti e seguite dagli atti, primo fra tutti un decreto con cui l'esecutivo, al termine di un Cdm convocato d'urgenza, ha tentato di contenere gli effetti della sentenza promuovendo a norma primaria la lista con 19 paesi sicuri.
In occasione della conferenza stampa, il Guardasigilli ha affermato che le toghe «non hanno capito la sentenza della Corte di Giustizia». Nella stessa settimana dell'affaire migranti, Meloni rilancia sui social una mail privata (resa pubblica dal quotidiano Il Tempo) in cui il sostituto procuratore generale della Cassazione Patarnello la definiva “più pericolosa di Berlusconi”. Le parole del magistrato sono state citate da Meloni nel comizio finale della campagna elettorale delle elezioni liguri, anche per ricordare, senza citare il diretto interessato, che a questa tornata gli elettori erano chiamati a giudicare anche l'operato dei pm.
La vittoria del centrodestra, in quest'ottica, ha dato una maggiore spinta alla riforma ma ha ulteriormente esacerbato il conflitto. Il tribunale di Bologna ha rinviato alla Corte di Giustizia Ue il decreto paesi sicuri, citando nelle motivazioni il fatto che, seguendo quanto scritto nel provvedimento, anche la Germania nazista poteva essere considerata un paese sicuro. Esempio che la premier ha energicamente rispedito al mittente, parlando di “volantino propagandistico” dei giudici.
Una guerra, dunque, che rischia di diventare di trincea: la conferenza dei capigruppo di Montecitorio, ieri, ha incardinato la separazione delle carriere in aula alla Camera per il 26 novembre, mentre sul fronte giudiziario si segnala, a due settimane dalle Regionali, la notizia che la procura di Perugia aveva iscritto nel registro degli indagati la governatrice in carica Donatella Tesei, poi archiviata.