Decine di imprenditori, ex sindaci, professionisti, funzionari, comuni cittadini assolti da accuse gravissime. Si chiude con un ribaltone il processo “Stige”, «la più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dall’allora procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri subito dopo gli arresti.

La Corte d’Appello di Catanzaro, presieduta dal presidente Antonio Giglio, ha infatti assolto 26 imputati riformando inoltre diverse sentenze di condanna comminate in primo grado dal Tribunale di Crotone, che nel 2021 aveva pronunciato 54 condanne e 24 assoluzioni. Ora la Corte d’Appello ha risicato ulteriormente la tenuta del quadro probatorio, confermandolo solo per quelli considerati organici alla cosca mafiosa dei Farao-Marincola ed escludendo praticamente del tutto un coinvolgimento della politica.
All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Parrilla, eletto l’anno precedente con il 62,2 per cento di voti, era prima finito in carcere e un mese dopo spedito ai domiciliari dal Riesame, che ritenne non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa.

Parrilla, che è anche sindaco di Cirò Marina, avrebbe conquistato la Provincia facendosi aiutare dagli scagnozzi del clan, capaci di convincere i consiglieri delegati del Comune di Casabona (Kr) a votare per lui. In primo grado era stato condannato a 13 anni, ma ieri la Corte d’Appello lo ha assolto. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale.

«Le cosche - aveva spiegato Gratteri - controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». Un’intera squadra politica, secondo la Dda, si piegava ai voleri della cosca in cambio di voti, mettendo l’attività istituzionale a disposizione del clan. Come il sindaco di Strongoli, Michele Laurenzano, non intraneo alla cosca, secondo le accuse, ma capace di fornire «un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo ai componenti dell’associazione». In primo grado fu condannato a 8 anni, oggi ne è uscito pulito.
L’indagine era già stata messa a dura prova dopo gli arresti, quando Riesame prima e Cassazione poi hanno smontato le esigenze cautelari ritenendo inutilmente oneroso il carcere per molti degli indagati, in particolar modo politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” - «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis», aveva sottolineato Gratteri - servì infatti a spiegare una tesi ribadita poi successivamente in altre operazioni della Dda: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’allora aggiunto Vincenzo Luberto.