Dopo l’informativa del governo alle Camere sulla scarcerazione e sull’invio a Tripoli del torturatore libico Almasri, lo scontro tra l’Italia e la Corte penale internazionale non è destinato a placarsi. Ieri si è diffusa la notizia di una denuncia, pervenuta ai giudici dell’Aia da un cittadino sudanese, dalla quale sarebbe scaturita un’indagine sul governo italiano, accusato di «ostacolo all'amministrazione della giustizia», ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma (Reati contro l’amministrazione della giustizia). Pronta la smentita della Cpi: nessun fascicolo è stato aperto nei confronti dell’Italia.

La risposta dell’esecutivo, in merito all’eventualità di una iniziativa della Cpi contro l’Italia, non si è fatta attendere. Secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, «bisognerebbe indagare la Corte». «Ho molte riserve – ha aggiunto il responsabile della Farnesina – sul comportamento della Corte su questa vicenda. Forse bisogna aprire un'inchiesta sulla Corte penale, bisogna avere chiarimenti su come si è comportata».

In questo clima avvelenato la credibilità del tribunale creato con lo Statuto di Roma del 1998 rischia di essere fortemente indebolita. L’Italia, ventisette anni fa, svolse un ruolo importante per l’istituzione della Corte penale internazionale. Oggi le cose sembrano radicalmente cambiate. Silvana Arbia, magistrata di grande esperienza (è stata, tra le varie cose, Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda), partecipò ai lavori della conferenza che portarono all’istituzione della Cpi. La giurista parte dall’intervento di due giorni fa del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per esporre il proprio punto di vista su quanto sta accadendo.

«È stata – dice al Dubbio – un’occasione mancata per il ministro della Giustizia, dal momento che le sue dichiarazioni sono apertamente e direttamente attacchi contro la giustizia e contro lo Stato di diritto che ne è il necessario presupposto. Nordio, in effetti, ha dimostrato che, grazie alla sua idea di giustizia, si può cancellare con semplici dichiarazioni un trattato internazionale, quale è lo Statuto di Roma istitutivo di una Corte penale internazionale, firmato e ratificato dall’Italia con la legge n. 232 del 1999. E tra le norme dello Statuto recepite nell’ordinamento italiano vi sono quelle che prevedono l’obbligo di cooperazione con la Cpi, eseguendo le sue richieste».

Rispetto all’esecuzione di un mandato di arresto, la magistrata di origini lucane chiarisce che in riferimento alla «richiesta della Cpi di arrestare e consegnare un ricercato, lo Stato richiesto, se Paese parte come l’Italia, ha l’obbligo imperativo di eseguire immediatamente l’arresto della persona per il solo fatto che la stessa si trovi nel suo territorio, e, una volta esperite le procedure interne applicabili, deve immediatamente informare il Registrar quando la persona è disponibile per la consegna». Secondo Arbia, i chiarimenti promessi con l’informativa alle Camere «non sono stati offerti». Anzi. «La confusione – aggiunge l’ex Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda – che si era creata con dichiarazioni e battute diffuse in precedenza risulta aggravata e le domande che anche i cittadini si pongono sono rimaste senza risposta».

Snodo fondamentale della vicenda la classificazione dell’atto. «La confusione tra la procedura di arresto e consegna – chiarisce Arbia –, come prevista nella legge n. 237 del 2012, e quella di estradizione rimane nelle dichiarazioni del ministro, il quale, sin dall’inizio del suo intervento in Parlamento, ha parlato di una richiesta di arresto a fini estradizionali, mentre non si applicano i principi in materia di estradizione perché, come si evince dallo Statuto di Roma e dalla legge n. 237/2012, si tratta di arresto e consegna». Alla confusione si è aggiunta una mancata collaborazione, senza alcun dialogo, tra via Arenula e l’Aia.

Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, è andato giù duro, definendo la Cpi “Corte dei miei stivali”. «La Cpi – riflette Silvana Arbia – è l’unica giurisdizione internazionale in materia penale, permanente, indipendente e potenzialmente capace di operare in qualsiasi parte del mondo. L’impunità di crimini gravissimi come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, e ove ne sussistano le condizioni, l’aggressione, sono crimini che riguardano direttamente o indirettamente tutti gli Stati e tutti i popoli. L’adesione ad un trattato internazionale è libera e libero ne è il ritiro, ma uscire da un sistema che garantisce il perseguimento e la punizione di crimini che costituiscono grave minaccia per la pace e la sicurezza mondiale danneggia soltanto chi si ritira non l’integrità della Cpi, che sta operando in situazioni difficili e con risultati concreti, con rischi enormi per le persone che vi operano e per i testimoni che ritengono meritevole di soddisfazione le istanze delle vittime di atrocità non descrivibili. Peraltro, la grande maggioranza degli Stati parte ha già in passato adottato risoluzioni per proteggere l’integrità della Corte».

L’Italia ha creduto molto nella creazione della Corte penale internazionale. Il “caso Almasri” sta lanciando però segnali preoccupanti. «L’Italia – conclude Silvana Arbia – ha finanziato la Conferenza diplomatica che ha portato all’adozione dello Statuto di Roma, ha nominato giudici di nazionalità italiana, ha posto la sua bandiera accanto al mio nome, ha contribuito a finanziare il budget della Corte, ma non ha dato attuazione agli impegni di cooperare con la stessa e di attuare la complementarietà che implica la realizzazione degli strumenti atti a consentire il perseguimento e la punizione dei crimini di competenza della Cpi, con acquisizioni di capacità specifiche a tal fine da parte dei magistrati, avvocati, e altri operatori nel campo della giustizia. La legge sulla cooperazione è stata adottata con molto ritardo e dopo insistenti richieste anche informali. Una negligenza che probabilmente ha radici nell’opportunismo che certe politiche fanno prevalere sull’esigenza di giustizia».