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Manifestazione sotto la Cassazione in favore di Alfredo Cospito
In diciannove pagine, elencando tre distinte posizioni, il Comitato Nazionale di Bioetica chiude la vicenda di Alfredo Cospito, l'anarchico che dallo scorso 20 ottobre sta portando avanti uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis. E lo fa appunto dando maggiori informazioni, rispetto al comunicato dello scorso 6 marzo.
Il parere di maggioranza, che comprende anche la firma del Presidente del Cnb Angelo Luigi Vescovi, da un lato sostiene che «è fuor di dubbio che il detenuto conserva la capacità di autodeterminarsi e di compiere gli atti di stretta rilevanza personale e, quindi, può non solo esprimere assenso o dissenso ai trattamenti diagnostici o sanitari che lo riguardano, ma può anche efficacemente redigere le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), ai sensi dell’art.4 della Legge n. 219/2017», dall’altro lato tuttavia «deve invece ritenersi estraneo al contesto sanitario cui si riferisce quest’ultima disciplina, il caso - contemplato nel quesito ministeriale n. 1 - in cui il rifiuto di trattamenti e di terapie, contenuto nelle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), sia subordinato al mancato conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale, come l’ottenimento di un bene materiale o immateriale. In queste situazioni le cure si rifiuterebbero allo scopo di esercitare una pressione su autorità chiamate ad una valutazione sulla base di altri schemi legali; le DAT diverrebbero così, da strumento per l’esercizio della libertà di cura, strumento di pressione. In particolare, rifiuto e rinuncia di trattamenti sanitari, così come delineati dalla Legge n. 219/2017, anche in forma di DAT, hanno una ratio radicalmente differente rispetto a quella che si pone per una persona che li rifiuta nel corso di uno sciopero della fame. Le due situazioni non sono sovrapponibili: nel primo caso il contesto è quello del rifiuto o rinuncia di un trattamento sanitario ritenuto inaccettabile; nel secondo caso, invece, rifiuto e rinuncia, in quanto forma di protesta e/o testimonianza, non sono ritenute dallo scioperante in sé stesse inaccettabili, tanto che sarebbero oggetto di revoca se chi sciopera ottenesse quanto richiesto».
In pratica, sembra che sia stato lo stesso Ministero della Giustizia ad indicare la strada - preferibile per Via Arenula – al Cnb. Infatti il primo quesito, posto su richiesta di Nordio, si poneva la seguente domanda: “il paziente che rifiuta i (o rinuncia ai) trattamenti sanitari in subordine all’ottenimento di beni diversi (materiali o immateriali) dalla libertà di cura, al fine di modificare una situazione personale, avrebbe espresso la medesima rinuncia in presenza del bene desiderato?”.
Nel solco di un bilanciamento tra valori in gioco – libertà di autodeterminazione e tutela della vita – si legge nel primo parere: l’art. 53 del codice deontologico medico (Rifiuto consapevole di alimentarsi), prevede che «il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale. Tale articolo esclude che il medico assuma iniziative costrittive o collabori a pratiche coattive di alimentazione o nutrizione artificiale, “ma non esclude che possa mettere in opera comportamenti allo scopo di salvare la vita. Ciò risulta in perfetta consonanza con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 50/2022, secondo cui “Quando viene in rilievo il bene della vita umana…, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”».
Il secondo parere - sostenuto anche dal delegato del Presidente dell’Ordine dei medici, Guido Giustetto, e dal delegato del Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Mauro Biffoni - parte da tale presupposto: «Riteniamo un punto cruciale affermare con chiarezza un presupposto che non emerge nelle riflessioni condivise del nostro ragionamento: la tematica dello sciopero della fame della persona detenuta non può essere equiparata a quella del suicidio in carcere». Secondo il gruppo di minoranza, di cui fa parte anche l’ex presidente del Cnb Lorenzo D’Avack, «sul diritto della persona (informata, libera e ferma nella sua convinzione, consapevole delle conseguenze) a decidere se e quali cure accettare trovandosi in imminente pericolo di vita non incidono né la sede dove ciò avviene (ad esempio, un ospedale con un reparto per detenuti) né il motivo iniziale che ha portato al pericolo di vita (ad esempio, lo sciopero della fame). Quanto alla libertà della scelta della persona in ambito sanitario, va ribadito che tale libertà esula dalle motivazioni che hanno portato il soggetto a tale scelta».
Insomma: non importa, ai fini del rispetto delle proprie Dat, che Cospito o qualsiasi altro detenuto stiano facendo uno sciopero della fame in carcere per ottenere un trattamento penitenziario migliore. Le sue volontà vanno rispettate: punto e basta. Quindi «non vi sono motivi giuridicamente e bioeticamente fondati che consentano la non applicazione della legge n. 219 del 2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) nei confronti della persona detenuta e, per le ragioni che si sono esposte, ciò vale anche se questa ha intrapreso uno sciopero della fame». Tra le varie motivazioni addotte c’è la seguente: «Il contrasto con la dignità (artt. 2 e 32 Cost.) di un trattamento sanitario contrario alla volontà della persona interessata, oltre che una totale lesione della sua autodeterminazione, rende il ricorso all’alimentazione forzata contrario ai principi bioetici e fondamentali su cui risulta costruito l’ordinamento italiano. Pertanto, risulta impossibile articolare un dovere di intervenire tanto in capo alle autorità penitenziarie quanto ai medici chiamati a nutrire artificialmente. Del resto, in altre tipologie di casistiche concernenti il rifiuto di trattamenti salvavita, ossia quelle afferenti alle vicende che vedono come protagonisti i Testimoni di Geova (maggiorenni) che in virtù del loro credo religioso rifiutano emotrasfusioni, la Suprema Corte, anche di recente (Cass. civ., Sez. III, 29469/2020) ha espressamente ribadito che il principio di autodeterminazione nell’ambito dei trattamenti sanitari, anche nell’ipotesi negativa del dissenso e a fronte di un reale pericolo di vita, si traduca in un diritto intangibile del paziente e comporti, quindi, un dovere di astensione del medico».
Il terzo parere sottoscritto da Stefano Semplici e Lucetta Scaraffia da una parte sostiene che «diventa difficile evitare la conclusione fissata nel testo del Department of Health inglese pubblicato nel 2002 e intitolato Seeking Consent: Working with People in Prison: l’amministrazione carceraria non ha il potere di imporre l’alimentazione forzata ai detenuti che rifiutano il cibo e questi ultimi possono sottoscrivere una direttiva anticipata per garantire il rispetto della loro volontà anche nel momento in cui non fossero più in grado di ribadirla»; dall’altra parte ricorda che l’art. 1 della legge 219/2017 prevede: «Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, salvo che nei casi espressamente previsti dalla legge».
In un bilanciamento difficile da compiere e nella ambiguità della norma, i due componenti concludono: «Con un intervento del legislatore si porrebbero, in ogni caso, anche le premesse per arrivare a un giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale, che risolverebbe definitivamente divergenze interpretative che appaiono insormontabili. A salvaguardia, in primo luogo, dei medici e di tutti coloro che sono chiamati a prendere decisioni tanto difficili in questo tipo di circostanze».