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LO SCENARIO
Spinto brutalmente ai margini dalla diffidenza anglo- americana per l'affidabilità dell'Italia all'inizio del conflitto, Draghi sta ora vigorosamente cercando di tornare al centro della partita diplomatica che si gioca intorno alla guerra ucraina, sia personalmente come leader europeo sia come rappresentante dell'Italia. La telefonata a Putin è un passo deciso in quella direzione e non è certamente una mossa impulsiva o estemporanea. In realtà era in qualche misura già chiaramente prefigurata dalla conferenza stampa di Washington, nella quale il premier italiano aveva già indicato la crisi alimentare. Prima la telefonata a Putin poi quella a Zelensky Così super- Mario torna protagonista internazionale
Il premier vuole riguadagnare il centro della partita come leader europeo e come rappresentante dell’Italia
Spinto brutalmente ai margini dalla diffidenza anglo- americana per l'affidabilità dell'Italia all'inizio del conflitto, Draghi sta ora vigorosamente cercando di tornare al centro della partita diplomatica che si gioca intorno alla guerra ucraina, sia personalmente come leader europeo sia come rappresentante dell'Italia. La telefonata a Putin è un passo deciso in quella direzione e non è certamente una mossa impulsiva o estemporanea. In realtà era in qualche misura già chiaramente prefigurata dalla conferenza stampa di Washington, nella quale il premier italiano aveva già indicato la crisi alimentare, o per dirla in termini meno asettici l'imminente carestia, come una delle principali emergenze se non la prima in assoluto. In quella sede, prendendo di fatto una ulteriore distanza da Washington dopo quella clamorosa sul pagamento in rubli del gas russo, Draghi aveva per la prima volta staccato la questione carestia dal cessate il fuoco, suggerendo la necessità di trattare sullo sblocco dei porti anche in assenza di un cessate il fuoco.
La telefonata di ieri consegue a quella presa di posizione. Il premier italiano non si aspettava segnali di sorta quanto a possibilità di mettere a tacere le armi. Non gli sono arrivati e parlandone in conferenza stampa ha fatto capire che non ne è affatto rimasto sorpreso. L'obiettivo era un'intesa umanitaria e parziale, limitata alla necessità di rifornire di grano i Paesi poveri dell'Africa e del Medio Oriente, basata su un doppio cedimento da parte dei due Paesi belligeranti. L'Ucraina dovrebbe accettare lo sminamento dei porti, la Russia dovrebbe garantire che non ne approfitterà per tentare sbarchi o colpi di mano e rendersi disponibile ai controlli del caso. Ma, pur non riguardando la guerra in sé e l'eventualità auspicata di una tregua, va da sé che un'intesa sui porti costituirebbe un precedente importante e aprirebbe se non proprio una strada almeno un varco.
Lo stesso premier italiano mette le mani avanti e sottolinea che nulla assicura che la sua iniziativa vada a buon fine. Putin non si è sottratto ma le difficoltà principali sono il sì dell'Ucraina, comprensibilmente diffidente, e la definizione delle eventuali garanzie. In ogni caso, ben più che con il goffo e abborracciato “piano di pace” l'avvio di dialogo con Putin su un obiettivo concreto e immediato restituisce all'Italia e a Draghi parte di quel ruolo da protagonista che le era sin qui sfuggito. Se poi, eventualità improbabile ma non impossibile, l'iniziaitiva italiana portasse a qualche risultato reale il peso specifico della penisola e del suo governo si impennerebbero.
Si capisce meglio, alla luce della telefonata di giovedì, perché Draghi abbia voluto evitare a ogni costo un dibattito parlamentare serio, e a maggior ragione un voto, sulla questione ucraina. L'emersione palese e vistosa di una ampia parte della maggioranza contraria all'invio delle armi e scettica nei confronti dell'atlantismo radicale abbracciato da Letta avrebbe infatti mutato radicalmente la percezione della mossa di Draghi negli Usa e nella stessa Ue. Per Draghi la condizione per potersi muovere con una certa autonomia anche a costo di sancire una divaricazione con Washington e l'assoluta affidabilità del suo Paese agli occhi degli alleati. Non è un caso se, sfidando l'ossimoro, accompagna ogni spinta trattativista al mantra per cui «a decidere le condizioni della pace deve essere Zelensky». Non si tratta neppure della tipica ambiguità italiana, del tentativo di tenere il piede in due staffe. È invece la consapevolezza che solo una assoluta, persino esagerata, lealtà atlantica può consentire a un Paese come l'Italia agibilità di movimento.
Allo stesso modo, Draghi è consapevole di quanto sarebbe essenziale, sul fronte interno, arrivare al momento di un voto parlamentare che prima o poi sarà inevitabile con la possibilità di calare sul tavolo qualche successo concreto. Il premier, negli ultimi giorni, ha costretto la destra della maggioranza ad accettare due riforme molto indigeste, le concessioni balneari e il catasto, ottenendo così l'ennesima prova della scarsa pericolosità della rumoroso ma inoffensivo fronte Lega- Fi. Sul lato opposto conta sull'impossibilità, per Conte, di rompere con il Pd per tenere sotto controllo la molto più minacciosa dissidenza dei 5S. Ma ci sono due elementi sui quali sa che Conte non intende mollare, il termovalorizzatore di Roma e la guerra, con il secondo potenzialmente molto più esplosivo del primo. L'offensiva diplomatica di questi giorni serve anche a disinnescare quella mina.