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Cesare Parodi in occasione della riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati per l’elezione delle cariche direttive
Una cosa è chiarissima come il sole: a Perugia i pm sono prudenti. Quanto meno lo è, l’ufficio diretto da Raffaele Cantone, anche rispetto a una denuncia presentata non da un cittadino qualsiasi, né da un attivista politico che voglia riproporre l’antico metodo di Leoluca Orlando – presentare un esposto contro un avversario, indurre così i magistrati a indagare il malcapitato, fino all’affondo in diretta tv in cui l’ex sindaco di Palermo rinfacciava alla controparte politica “taci, sei un indagato!” (e grazie, era indagato perché l’aveva deenunciato lui). A Perugia non va così: vige la dottrina Cantone, e se proprio arriva un esposto dei Servizi segreti, addirittura del Dis, e l’ipotesi in questione è la violazione dell’obbligo di segreto, astrattamente contestabile al capo di un’altra Procura, nello specifico Franco Lo Voi, capo dei pm romani, ebbene persino in un caso così estremo, pesante, la dottrina Cantone prevede che non vi sia l’immediata iscrizione a registro nei confronti del collega.
Si dovrebbe solo apprezzare, e non poco, la posizione di Cantone, legata anche al rischio che la sua Procura, competente per i reati contestati o consumati ai danni dei magistrati in servizio a Roma, diventi uno sversatoio di rappresaglie contro giudici e pm. Si deve inevitabilmente ricordare che invece proprio Franco Lo Voi, di fronte all’esposto di Luigi Li Gotti sul caso Almasri, aveva scelto di non approfittare di tutti e 15 i giorni che pure gli erano concessi dalla legge costituzionale del 1989: ha rapidamente individuato i possibili autori del presunto reato, e cioè la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, i ministri Calo Nordio e Matteo Piantedosi, e ha trasmesso, com’è noto, gli atti al Tribunale dei ministri.
Non entriamo, di nuovo, nella disputa, in gran parte già risolta da diversi giuristi e in particolare dal professor Mazza con un magistrale intervento su queste pagine che ha spiegato come l’iscrizione del gotha dell’Esecutivo nel registro degli indagati non costituisse affatto un atto dovuto, e che a fronte di una denuncia, il capo di qualsiasi ufficio inquirente ha sempre e comunque la facoltà di valutare se il tutto non si riduca a un’accozzaglia di fandonie, o al più alla segnalazione di fatti noti che la Procura ha già valutato o potrebbe di lì a poco valutare autonomamente, senza avere bisogno di imbeccate esterne.
Non riapriamo il dibattito, no. Ma ci limitiamo a osservare un cosa. Che pochi minuti dopo il video con cui Meloni, lo scorso 28 gennaio, ha informato gli italiani di essere indagata, l’Anm ha dettato alle agenzie di stampa un comunicato in cui si è affrettata a sostenere l’esatto contrario di quanto poi chiarito dal professor Mazza, e cioè che la decisione con cui Lo Voi aveva di fatto avviato la messa in stato d’accusa dell’Esecutivo era inevitabile, tutta colpa di Li Gotti, al limite.
E perché è importante ricordare quel dettaglio, quella dichiarazione assertiva diramata dall’Associazione magistrati due settimane fa? Perché nella sua nettezza, quella nota appunto sembra rispondere a un principio esattamente opposto a quanto ti aspetteresti di ascoltare da un soggetto che rappresenta i massimi esperti pubblici in faccende giuridiche, i magistrati appunto: terzietà, oggettività, imparzialità basata sulla valutazione tecnica e il più possibile ( nei miti dell’umano) libera da condizionamenti politici.
E invece quella nota forse precipitosa dell’Anm a difesa di Lo Voi sembrò attestare il contrario: soprattutto a distanza di qualche giorno, ha tutta l’aria di essere stata una precipitosa pezza a colori mediatica, appiccicata lì per evitare che l’indagine innescata dalla Procura di Roma inducesse nell’opinione pubblica il sospetto di una magistratura pronta a utilizzare il proprio potere giurisdizionale come strumento di lotta politica.
Anche se, oggettivamente, la mossa di Lo Voi era sembrata tutto fuorché un atto di guerra contro la separazione delle carriere, arrivava comunque tre giorni dopo la spettacolare protesta dei suoi colleghi nelle 26 Corti d’appello italiane, dove giudici e pm avevano alzato i tacchi e se n’errano usciti dalle aule in cui si celebravano le inaugurazioni dell’anno giudiziario non appena avevano preso la parola i rappresentanti del governo, Nordio compreso. Quella che, nelle intenzioni dell’Anm, doveva essere l’indignata mobilitazione dei custodi supremi della democrazia, mobilitati contro la riforma Nordio non per un riflesso corporativo ma per il bene degli italiani, rischiava di apparire, combinata con la scelta di Lo Voi, proprio un’insorgenza autoreferenziale e tutt’altro che disinteressata.
E così l’Anm quel giorno anziché offrire un contributo tecnico di chiarezza, come ha fatto pochi giorni dopo il professore e avvocato Oliviero Mazza, ha diffuso un comunicato per pararsi dalle critiche, come avrebbe fatto la segreteria di un qualsiasi partito politico. E la vicenda è illuminante perché ci ricorda, in fin dei conti, che l’Anm è appunto un soggetto politico. Non è l’organo esponenziale di un ordine attento a esprimersi solo per offrire un contributo tecnico sulle riforme, oltre che sull’organizzazione della giustizia, ma un’associazione di parte costitutivamente orientata a garantire, difendere e affermare interessi di parte, come un qualsiasi sindacato.
Sarà importante tenerlo presente, di qui ai prossimi 12- 13 mesi, quelli che presumibilmente ci dividono dal referendum sulla separazione delle carriere. Ogni volta che l’Anm protesterà, si appunterà sul petto una coccarda tricolore a memento dell’onore ferito (da Nordio) della Nazione, sarà utile ricordarsi che ci si trova davanti a una militanza certamente legittima ma faziosa e interessata, anziché a un ordine sacerdotale immune dalle passioni e, soprattutto, da quella politica contro la quale di solito proprio i pm si ergono a spietati censori.