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A luglio del 2022 Giovanni Buccoliero è morto in corsia. D’infarto, dopo un turno durato 24 ore per coprire le carenze di organico dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. Aveva accumulato più di 170 giorni di ferie non godute, dimostrando una dedizione unica per il suo lavoro. Un amore incondizionato, nonostante da circa otto anni combattesse con un’accusa infamante per chi indossa un camice: omicidio colposo. Buccoliero era infatti sotto processo, per un reato che - si scoprirà solo dopo la sua morte - non aveva mai commesso. E se fosse sopravvissuto allo stress, alla fatica, lo scorso febbraio avrebbe avuto l’occasione di urlarla ad alta voce quell’innocenza che qualcuno aveva negato. Il medico era a processo a Taranto assieme ad altri tre colleghi: secondo l’accusa, i quattro avrebbero causato la morte di un settantacinquenne di Avetrana, deceduto a novembre del 2015. Per i giudici, però, «il fatto non sussiste». Una pronuncia che nei tribunali, quando a processo ci finiscono i medici accusati di aver svolto male il proprio lavoro, non è difficile sentire.
Secondo un dossier Ania - Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici -, sulla responsabilità civile delle strutture sanitarie e dei medici, il numero dei contenziosi è in continua crescita, con circa 30mila casi ogni anno. A fine 2022 erano 3 milioni 829mila i casi pendenti nei tribunali. Numeri altissimi, ma il 99 per cento dei medici sotto inchiesta viene dichiarato innocente al termine delle indagini, senza dover neppure affrontare un processo.
«L'esplosione del contenzioso - ha sottolineato l'ortopedico Lucio Catamo, coordinatore del Convegno dal titolo “Rivendicazione giusta e ingiusta rivendicazione” tenutosi il 29 ottobre scorso nella sede di Medinforma a Bologna - ha costi sociali elevatissimi e distrae risorse economiche dalla vera assistenza. Migliaia di medici in tutta Italia, nel timore di poter essere denunciati, applicano ormai di routine la cosiddetta “medicina difensiva”: sottoporre chiunque a tutti gli accertamenti diagnostici possibili, anche quando sono chiaramente inutili, con l'obiettivo di allontanare il rischio di possibili contenziosi legali per negligenza o superficialità. Ancor più clamoroso è l'abbandono degli ospedali da parte dei medici strutturati, soprattutto nei Pronto Soccorso, e spesso l'abbandono dell'Italia verso Paesi meno riottosi e più generosi economicamente».
Di casi la cronaca ne è zeppa. Il 7 marzo scorso, ad esempio, ad essere assolti sono stati tredici medici di Medicina e Chirurgia d'urgenza dell'ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona, a Salerno, accusati per la morte di un 61enne, deceduto a luglio del 2015. Secondo la denuncia dei familiari, l’uomo non fu sottoposto alle cure più opportune dopo la diagnosi di una colecisti acuta grave. Secondo il giudice monocratico Francesco Rossini, però, Mario Memoli, Stefania Minichiello, Maria De Martino, Luigi Pecoraro, Antonio Battista, Gianluca Orio, Antonio Carrano, Pasquale Smaldone, Antonio Canero, Anna Pollio, Guido De Feo, Marcello Della Corte e Giuseppe De Nicola non avrebbero commesso il fatto. Sei giorni dopo, il 13 marzo, ad essere assolti sono stati altri sei medici imputati di omicidio colposo per la morte di una donna di 65 anni sottoposta a due interventi chirurgici. Il Gup Gelsomina Palmieri ha sancito il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per medici della casa di cura Sant'Anna di Caserta e dell'ospedale "Fatebenefratelli" di Benevento, accusati per la morte di una donna di Caserta, avvenuta nell'ottobre del 2017 nell'ospedale beneventano.
Stando ai dati del 2019, le denunce vengono presentate principalmente al Sud e nelle isole (44,5 per cento). Al Nord la percentuale scende al 32,2 per cento mentre al Centro si ferma al 23,2 per cento. Dati che impensieriscono i medici: il 78,2 per cento di loro ritiene di correre un maggiore rischio di procedimenti rispetto al passato, il 68,9 per cento pensa di avere treprobabilità su 10 di subirne; il 65,4 per cento avverte una pressione indebita nella pratica quotidiana. Proprio per tale motivo ad esultare, di fronte alla proposta di depenalizzazione avanzata nei giorni scorsi dal ministro della Salute, è il sindacato dei medici. «Si tratta di un intervento che chiediamo da tempo e che reputiamo essenziale per ridare maggiore serenità ai medici e per ridurre il ricorso alla medicina difensiva - ha affermato Guido Quici, presidente del sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed -. Solo in Italia, in Polonia e in Messico l’errore medico rischia di essere sanzionato penalmente. Ora lavorare rapidamente al provvedimento in modo da superare tale singolarità».
A scrivere un libro sull’argomento era stato Pietro Bagnoli, chirurgo oncologo dell’apparato digerente, che ha raccontato la sua storia nel volume “Reato di cura” (Sperling & Kupfer), del 2016. Bagnoli nel 2009 finì sotto processo insieme alla sua équipe, altri due chirurghi e un radiologo, per la morte di una ragazza. I genitori fecero causa e i medici furono rinviati a giudizio, poi assolti in primo grado e in appello «perché il fatto non sussiste». Una storia giudiziaria lunga quasi quattro anni, che oltre a rappresentare il racconto di accuse naufragate nel nulla evidenzia anche la deriva della sanità italiana.
La medicina difensiva, infatti, «secondo un’indagine ministeriale, costa all’Italia 10 miliardi l’anno», scrive Bagnoli. C’è quella di tipo attivo, con il medico prescrive esami «che servono, più che a saperne di più sul paziente, ad accumulare referti per contestare un’eventuale contestazione. Pezze d’appoggio, insomma. Che chiaramente fanno crescere la spesa sanitaria e i tempi d’attesa per gli altri pazienti». E poi c’è quella “passiva”: «Il medico è portato a evitare atti terapeutici impegnativi e rischiosi. Perché se vanno bene, nessuno ti dice grazie. Se vanno male, ti portano dritto in tribunale». Una autocensura preventiva, insomma, per evitare conseguenze. La soluzione, secondo Bagnoli, è passare a una medicina «basata sull’evidenza» che esca dall’autoreferenzialità dell’appartenenza alle «scuole».