Nel momento in cui una Procura o un organismo politico come la commissione Antimafia esplorano – per la prima volta in assoluto e attraverso il reperimento di documenti tenuti per decenni nei cassetti – ciò su cui Paolo Borsellino stava concentrando le indagini negli ultimi giorni di vita, si mette in moto un attacco concentrico.

Si schierano associazioni come le “Agende Rosse” capeggiate da Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso a via D’Amelio, ma anche i familiari delle vittime delle stragi di Bologna e Piazza Fontana. Vengono usati, tutti, come “massa critica” da Giuseppe Conte. Il leader pentastellato è intervenuto al secondo di due eventi organizzati ieri al Senato, su iniziativa di Stefano Patuanelli, parlamentare M5S: una conferenza stampa prima e un convegno subito dopo. Unico obiettivo: attaccare la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo.

Conte, al pari di altri relatori intervenuti a Palazzo Madama, l’accusa di aver posto il problema dei palesi conflitti d’interessi riguardanti il senatore Roberto Scarpinato e il deputato Federico Cafiero de Raho, entrambi componenti dell’Antimafia ed eletti col Movimento. L’ex pg di Palermo, in particolare, si trova a essere “inquirente” in un’indagine parlamentare, quella su via D’Amelio e sul peso del dossier “Mafia- appalti”, della quale è pure “oggetto”. «Il conflitto di interessi riguarda Colosimo, con prova fotografica di affettuosa confidenza con Ciavardini», è la fatwa scagliata da Conte contro la presidente della Bicamerale. Neppure una parola sull’evidente incompatibilità di Scarpinato, solo un urlo: «Ci rivolgeremo alle presidenze delle Camere perché questo scempio non vada avanti, se necessario andremo dal presidente della Repubblica».

Tra i primi a replicare, la capogruppo Giustizia di FdI alla Camera Carolina Varchi: «È ridicolo che due magistrati da sempre in lotta contro la criminalità usino tali giochetti per attaccare Colosimo, che opera alla ricerca di verità e giustizia senza condizionamenti». Allo sfacciato, impudente anatema di Conte fanno da corollario interventi, alla conferenza stampa e al successivo convegno, in cui riecheggia la vecchia inchiesta degli anni Novanta, condotta dall’allora pm Antonio Ingroia e dallo stesso Scarpinato.

Quell’inchiesta sosteneva che gli attentati del ’93, eterodiretti da massoni, eversori neri ed entità varie, fossero finalizzati alla nascita della seconda Repubblica e all’ascesa di Silvio Berlusconi. Fu archiviata per assoluta mancanza di prove, su richiesta dei due pm stessi, ma venne poi riciclata sotto altre spoglie attraverso aggiunte suggestive. Qualche sponda processuale è stata trovata, come in Calabria, attraverso il processo denominato “’ ndrangheta stragista”, in cui hanno sfilato pentiti calabresi poco credibili. Ma al di là del nome giornalistico ingannevole, il processo era volto alla condanna dei Graviano, responsabili di un duplice omicidio ai danni dei carabinieri.

Non essendo a giudizio persone che possano difendersi dal teorema di fondo (pensiamo solo al povero poliziotto detto “Faccia da mostro”), quel processo è diventato il contenitore di tutti i fallimenti giudiziari avvenuti a Palermo. Eppure, dovrebbe essere scontato che le indagini serie non partono dai massimi sistemi, che hanno il solo effetto di creare romanzi di fantapolitica (a tal proposito è da rileggere l’ultimo libro di Falcone scritto assieme a Marcelle Padovanì).

Se la commissione avesse seguito tali indicazioni, ancora oggi saremmo all’oscuro su quanto Borsellino stava concretamente investigando. Il giorno prima di via D’Amelio, Borsellino incontrò in albergo il suo collega – all’epoca pm di Aosta – David Monti. Gli confidò che, pur non avendo la delega su Palermo, tramite le sue indagini agrigentine di competenza poteva comunque risalire alla causa della strage di Capaci. E ora, grazie alla desecretazione, stiamo conoscendo il lavoro colossale che stava svolgendo. D’altronde, come insegna Falcone stesso, si parte dal singolo omicidio per arrivare alla Cupola. Lo stesso dossier “Mafia- appalti” nasce dall’omicidio di Giuseppe Taibbi, piccolo imprenditore di Baucina, e dalla collaborazione di Aurelio Pino.

Da lì, si è giunti al vertice di alcune grandi imprese nazionali. Ma tutto ciò crea fastidio. A maggior ragione nel momento in cui la Procura di Caltanissetta “mette il becco” su alcuni ex togati della Procura di Palermo. Un nervosismo che cresce, tanto da generare critiche trasversali e subdole nei confronti dei figli di Borsellino e del loro legale Fabio Trizzino. Proprio coloro che in 32 anni sono stati sempre composti e mai hanno fatto parte di questa grande macchina da guerra – supportata da Procure e partiti – in cui si usano ignari familiari delle vittime per accreditare una narrazione fuori dalla realtà oggettiva dei fatti. Il centrodestra, FdI in primis, rimane compatto.

All’opposizione solo Italia Viva è fuori dal coro. Ed è surreale, perché qui dovrebbe essere in gioco non una questione ideologica ma la verità oggettiva dei fatti. Il Pd sta dimostrando di essere una stampella del M5S, non preoccupandosi del fatto che presto questo caso gli scoppierà tra le mani. Il capogruppo dem in Antimafia Walter Verini lo ha ancora una volta dimostrato non solo in un’intervista su queste pagine – con una proposta di legge sul conflitto d’interessi utile a non scomodare chi ne è toccato ( e dunque scritta ad personam) – ma anche partecipando al convegno di ieri. Inutile soffermarsi sulle parole di Conte o Verini: parlano di un tema che non conoscono. Infatti non fanno altro che porre argomentazioni recepite dai loro punti di riferimento per attaccare la commissione.

Bisogna dare importanza all’originale, ovvero Scarpinato. Interessante il suo intervento, nel quale ha esplicato la stessa narrazione di sempre, dando per certi dei fatti assolutamente non verificati. «Alla commissione non interessa accertare la presenza di soggetti esterni nelle stragi», tuona sventolando la sua memoria in cui, a suo dire, ci sono indicazioni per arrivare alla verità. È stato procuratore per 40 anni, ha avuto carta bianca per le indagini, istruito processi quasi del tutto fallimentari, eppure dice che la verità non è stata ancora raggiunta. Deve sopperire la presidente Colosimo, a queste sue mancanze?

Il momento più controverso si è avuto quando Scarpinato ha azzardato un paragone con Falcone e Borsellino, sostenendo come anche loro fossero stati ostracizzati per fermare le indagini sull’eversione nera e similari. Un falso storico. Ancor di più quando Scarpinato cita il fallito attentato all’Addaura, collegandolo alle indagini di Falcone su Fioravanti e Ciavardini per l’omicidio Mattarella. La realtà è ben diversa: quel giorno Falcone era con i colleghi svizzeri Del Ponte e Lehmann per l’inchiesta “Pizza Connection” sul riciclaggio. Quello dava fastidio: indagare sui conti svizzeri.

Poco corretto, inoltre, che Scarpinato citi esclusivamente le parole pronunciate da Falcone in Antimafia nel 1988: «È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura la “pista nera” sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con essa. Il che potrebbe significare saldature e la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese ». Le parole sono importanti. Da persona estremamente seria, Falcone spiegò che l’indagine era appena iniziata e la si doveva approfondire per rispondere a questi quesiti, senza fare affermazioni definitive. La risposta l’abbiamo da lui stesso nell’audizione in Antimafia, due anni dopo, nel verbale del 1990: scarta completamente l’ipotesi che oggi Scarpinato pretende sia verità da approfondire.

Negli atti sui delitti eccellenti, Falcone stesso ribadisce che queste tesi – comprese Gladio e P2, già pompate all’epoca – sono da cestinare per «l’irriducibile vocazione di Cosa nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno» . Questo è ciò che pensava Falcone e che ribadirà in ogni sede. Legittimo esprimere tutte le tesi che si vogliono, ma metterle in bocca anche a Falcone e Borsellino non è accettabile. Loro erano giganti, dotati di una capacità intellettuale difficile da scorgere tra gli ex magistrati seduti negli scranni del Parlamento.