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«La cosa importante in questo momento è rimuovere quel sottosegretario che secondo me getta delle ombre su tutto il governo». L’ultimo avviso di Matteo Salvini ai 5 Stelle non sortisce l’effetto desiderato. Luigi Di Maio non sembra affatto intenzionato a tapparti la bocca, come suggerito dal ministro dell’Interno, e sul sottosegretario ai Trasporti indagato per corruzione, Armando Siri, insiste: deve lasciare Palazzo Chigi. «Per farlo spero non si debba arrivare in Consiglio dei ministri», aggiunge il capo politico del Movimento, minaccioso e dialogante allo stesso tempo, consapevole che una conta in Cdm comporterebbe l’inevitabile conclusione del “governo del cambiamento”. «Non credo che si debba arrivare al voto ma in ogni caso la spaccatura è già evidente sul caso Siri perché sulla corruzione ci sono delle sensibilità differenti», argomenta il ministro del Lavoro pentastellato.
La corruzione, del resto, potrebbe non essere l’unico scoglio su cui la nave giallo- verde rischia di incagliarsi entro mercoledì, giorno in cui è previsto il Cdm. La procura di Milano ha infatti aperto un fascicolo ( al momento senza ipotesi di reato e indagati) sulla palazzina acquistata da Armando Siri a Bresso, alle porte di Milano. Sotto i riflettori dei pm è finito un mutuo, da 585mila euro, concesso da una banca di San Marino al sottosegretario senza avere in cambio alcuna garanzia, secondo quanto ricostruito dalla trasmissione Report. A far scattare i controlli per riciclaggio sarebbe stato lo stesso notaio che ha stipulato l’atto di compravendita dell’immobile intestato alla figlia del sottosegretario leghista. Per i grillini, è un motivo in più d’imbarazzo, per il Carroccio si tratta dell’ennesimo caso di forza mediatica da non tenere in considerazione.
«Possono aprire tutte le inchieste che vogliono, io sono assolutamente tranquillo», ribadisce Matteo Salvini, incurante del nervosismo dell’alleato. «Se a Siri viene contestato di avere un mutuo, è un reato che stanno compiendo alcuni milioni di italiani che pagano la rata del mutuo», chiude la discussione il vice premier della Lega. L’inquilino del Viminale, alle prese con una campagna elettorale senza quartiere, ostenta tranquillità e disinteresse per le polemiche M5S. «Sto aggiornando l’agenda su immigrazione e mafia, di questo mi occupo», afferma Salvini, schivando le domande sul futuro del governo dopo il Cdm di mercoledì. «Dopo mercoledì vengono giovedì, venerdì e sabato e per me non è un problema. Continuo a ritenere che in un Paese civile i processi si facciano in tribunale e se uno è colpevole si viene condannati da un giudice, non da un giornale», dice il segretario federale del Carroccio.
Senza una mediazione nelle prossime ore, è difficile ipotizzare la sopravvivenza dell’esecutivo al Consiglio di mercoledì. Ma i due partiti di maggioranza ormai parlano lingue troppo diverse per puntare su una riconciliazione last minute. Nessuno sembra più in grado di fare un passo indietro. «Il governo non può permettersi alcun tipo di ombre», afferma nel pomeriggio il ministro dei Trasporti, danilo Toninelli, in qualche modo diretto superiore di Siri. «Nel Cdm si voterà per tutelare il governo. Noi siamo gente onesta e non come gli altri», aggiunge, rendendo sempre più profondo il solco tra alleati.
Tutte queste polemiche, «l’alzare i toni, sono cose tipiche della campagna elettorale», spiega il ministro dell’Agricoltura, Gianmarco Centinaio. «Il 26 maggio sarà un momento pesante, è normale che tra due alleati di governo ci sia una sana competitività sui contenuti, anche aspra, ma se alla querelle tecnica e politica si aggiungono i continui attacchi personali andare a ricucire diventa seriamente problema», mette in guardia l’esponente leghista, convinto difensore di Armando Siri. Perché «potrebbe capitare a ogni politico di essere tirato in mezzo in una conversazione telefonica tra due persone: domani il signor A e il signor B dicono che hanno dato 20mila euro a Gianmarco Centinaio e io che faccio, devo dare le dimissioni?», si chiede il ministro dell’Agricoltura.
Ma i grillini, forti dei numeri, sembrano inamovibili: il sottosegretario deve lasciare. «I nostri ci saranno tutti e voteranno compatti per le dimissioni», dice il capogruppo M5S al Senato, Stefano Patuanelli, riferendosi alle truppe pentastellate in Cdm composte da Di Maio, Toninelli, Grillo, Fraccaro, Bonisoli, Lezzi, Bonafede e Trenta. La Lega, invece, può contare sul voto di Salvini, Centinaio, Stefani, Fontana, Bongiorno e Bussetti. Gli indipendenti Enzo Moavero Milanesi e Giovanni Tria si terranno alla larga dalla contesa, lasciando all’avvocato del popolo Conte il compito di tentare un’ultima, dipserata, mediazione.