L’Autonomia differenziata si presenta come un edificio fragile, privo delle fondamenta necessarie per reggersi. È questo il senso finale delle parole pronunciate da Giovanni Amoroso, da oggi nuovo presidente, all’unanimità, della Corte costituzionale, durante la conferenza stampa che lo ha tenuto impegnato per un’ora dopo la sua elezione.

Giudice costituzionale dal 26 ottobre 2017, è stato vicepresidente dal 12 dicembre 2023 e il suo mandato di giudice costituzionale terminerà il 13 novembre 2026. Ha nominato suoi vice Francesco Viganò e Luca Antonini. Nominato magistrato nel 1975, tra il 1990 e il 1996 ha collaborato come assistente di studio con il giudice costituzionale Renato Granata, e dal 1999 al 2008 ha ricoperto lo stesso ruolo per Franco Bile, futuro Presidente della Corte costituzionale. Consigliere di Cassazione dal 2000, assegnato alle Sezioni Penale e Lavoro, è entrato nelle Sezioni Unite civili nel 2006. Dal 2013 ha diretto l’Ufficio del Massimario della Cassazione, fino a diventare presidente di sezione nel 2015.

Nella sua prima uscita pubblica, evita in ogni modo il conflitto con la politica, chiarendo ad ogni domanda di voler tenere ben evidenti i confini tra la Corte e il Parlamento. Ma è impossibile, alla luce anche della sentenza con la quale 24 ore prima era stato bocciato il referendum sulla legge Calderoli, non parlare di Autonomia, con un messaggio al legislatore, chiamato a intervenire per rideterminare «i criteri per l’individuazione dei livelli essenziali di prestazione».

La Consulta, infatti, nelle scorse settimane aveva evidenziato 14 capi di incostituzionalità nella legge 86, lasciando al Parlamento il compito di ricostruire «questa base che è a fondamento di tutto l’impianto della legge per l’attribuzione di specifiche funzioni di materia». Perché senza fondamenta solide, ha concluso Amoroso, è impossibile costruire l’edificio dell’Autonomia differenziata. La Corte ha fissato criteri chiari e vincolanti: «L’attribuzione e il trasferimento (di specifiche funzioni, ndr) sono condizionati alla predeterminazione dei livelli essenziali di prestazione attinenti ai diritti civili e sociali - ha chiarito -. E sono proprio il pilastro su cui si regge la legge e che è stato investito dalla pronuncia di incostituzionalità della sentenza 192. La possibilità di determinare i Lep senza un intervento del legislatore non c’è».

Certo, ci sono materie non Lep, «ma anche su queste la Corte è intervenuta, innanzitutto limitando l’attribuzione a specifiche funzioni di materie» e «precisando che l’attribuzione per le materie non Lep, laddove ci sia un’incidenza su diritti civili o sociali, richiede comunque la predeterminazione dei Lep». E anche in questo caso, dunque, è «necessario che intervenga il legislatore». Il che vuol dire, chiudendo il cerchio, che bisogna intervenire proprio su tutto.

Per questo, dunque, è stato bocciato il referendum che mirava a cancellare la riforma: «La consapevolezza del voto dell’elettore passa attraverso la chiarezza sia del quesito che dell’oggetto del quesito stesso - ha evidenziato -. Ora l’oggetto si è fortemente ridimensionato a seguito della sentenza 192 e si è ridimensionato a un punto tale che ciò che rimane è poco più che un perno sul quale costruire l’impianto per il trasferimento di specifiche funzioni. La obiettiva non chiarezza dell’oggetto del quesito avrebbe comportato una sorta di mutamento del quesito stesso in uno più chiaro, cioè: volete o no l’attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione? Ma questo è un interrogativo che non si può sottoporre all’elettorato, perché riguarda una norma costituzionale».

L’atteggiamento di Amoroso è diverso da quello dei suoi predecessori, che non risparmiavano messaggi “politici”, anche se il più possibile tra le righe. E non cede mai ai tentativi di chi vuole portarlo a dire qualcosa di più, qualcosa che potrebbe apparire come un’invasione di campo. Come nel caso del ritardo clamoroso sull’elezione dei quattro giudici costituzionali mancanti, per i quali l’auspicio, chiarisce Amoroso, è che «il collegio della Corte possa essere reintegrato nel suo plenum quanto prima».

Ma il ritardo non desta preoccupazione. «La Corte non è menomata dal fatto di aver lavorato in 11 - ha sottolineato - perché è proprio espressamente previsto dalla legge 86 del 53». Quindi anche se il ritardo appare all’esterno come una mancanza di rispetto da parte della politica, impegnata nella lottizzazione di un organo istituzionale, per il presidente non c’è motivo di preoccuparsi: «Il Parlamento ha eletto giudici del calibro di Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti e prima ancora Silvana Sciarra e quindi ha mandato giudici di eccellenza. Non mi pare che ci sia da temere un atteggiamento di sottovalutazione - ha evidenziato -. Ci aspettiamo, e sicuramente sarà così, giudici di assoluto livello». Giudici che una volta dentro la camera di consiglio, «si spoglieranno della loro provenienza» politica, raggiungendo «una sintesi».

Si muove con cautela anche quando gli viene chiesto conto del rapporto non proprio roseo tra la sua categoria, la magistratura, e la politica: «Certo non giova alla serenità del Paese che ci sia una situazione non direi di conflitto, ma di non armonia - ha sottolineato -. Ci sono vari fronti». Però «la Corte ha un ruolo specifico» e non ha a che fare con le riforme, almeno fino a quando non ci sono «incidenti di costituzionalità» sui quali pronunciarsi. Anche se poi il rischio è che le sentenze rimangano lettera morta.

Come quella sull’affettività in carcere, luogo che vive un’emergenza continua, con sovraffollamento e suicidi, che pone gli istituti penitenziari fuori dalla Costituzione. «È un versante al quale la Corte dà una particolare attenzione. Problemi che attengono all'ordinamento penitenziario sono abbastanza ricorrenti - ha sottolineato -. La Corte il mestiere suo lo fa. È un grosso problema quello del sovraffollamento. Però qui poi vengono in rilievo anche altri aspetti, anche logistici. Il tutto, poi, si inserisce nel discorso della leale collaborazione: la Corte spinge con i moniti laddove ci sono situazioni alle quali non può porre rimedio».

Leale collaborazione, dunque, come sul fine vita, sul quale Amoroso ha escluso retromarce, previsione che ha allargato anche alla procreazione assistita. «È difficile ipotizzare passi indietro - ha concluso -, ma poi c’è sempre da confrontarsi con il contesto». Come durante il Covid. Tocca sperare, allora, che non arrivi una pandemia dei diritti.