Per la prima volta, con il voto di due giorni fa al Senato, si è fissato un limite temporale ( 45 giorni) alla possibilità di intrusione nella vita di ogni cittadino con le intercettazioni. Merito di chi questa riforma ha voluto, il senatore Pierantonio Zanettin di Forza Itala, e di tutta la maggioranza, estesa in questa occasione a Italia viva. Se il provvedimento sarà approvato anche alla Camera, ci troveremo di fronte a una vera rivoluzione culturale. Dalla logica del sospetto, per cui ogni soggetto è potenzialmente criminale e quindi va spiato senza limiti perché prima o poi qualcosa si troverà, a una concezione liberale del diritto che privilegia integrità e inviolabilità della persona al di sopra di qualunque necessità giudiziaria.

I sì alla legge Zanettin sono stati 83, compresi quelli di Italia viva, presentati da un brillante intervento di Matteo Renzi, 49 i no e un astenuto. Come ormai succede sempre, i partiti dell’opposizione con il loro voto sono i meri esecutori materiali delle indicazioni che provengono sia dal sindacato delle toghe, Anm, che da singoli magistrati, come in questo caso da Nino Di Matteo, compresi quelli assorbiti dal gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle, come Roberto Scarpinato. È impressionante la tempistica. All’approvazione di questa proposta di legge, con il voto contrario delle opposizioni, si è arrivati preceduti da una campagna assordante del “Fatto quotidiano”, che per giorni e giorni ha annunciato la data fatidica in cui sarebbe crollata qualunque possibilità di fare processi in Italia, soprattutto per reati di mafia, senza la possibilità di spiare all’infinito.

È stato intervistato anche un magistrato genovese, il procuratore aggiunto Francesco Pinto, che ha condotto le indagini su Giovanni Toti, sottoponendo lui, il suo staff e il suo ufficio a intercettazioni durate quasi quattro anni, con un impegno di telecamere accese nell’arco delle 24 ore. Ha ragione, il procuratore, quando dice che tutto ciò non sarebbe stato consentito con la nuova legge, e meno male, vien da dire, visto il risultato. Perché ancora la procura di Genova non ha spiegato il senso di tutte quelle intrusioni, cui dobbiamo aggiungere i tre mesi di carcere domestico cui è stato sottoposto l’ex governatore, per arrivare a proporre un patteggiamento per corruzione impropria, cioè quella che qualifica come legittimo ogni atto amministrativo della giunta regionale.

La seconda spiegazione che ancora aspettiamo è che fine abbia fatto quell’aggravante di mafia contestata ad alcuni coimputati di Toti, quella che ha consentito, tra l’altro, l’applicazione del regime speciale e incontrollato, con tempi ancora più lunghi dell’ordinario, delle intercettazioni. Come dimenticare il fatto che l’inchiesta genovese era nata a La Spezia e che il primo indagato, cui fu contestata l’aggravante mafiosa, era Matteo Cozzani, capo di gabinetto di Toti, intercettando il quale, con la normativa antimafia, si illuminò a giorno tutta la vita del governatore?

La nuova legge Zanettin, pur avendo posto vincoli severi, basati su elementi “specifici e concreti” che le giustifichino, e “espressa motivazione”, sul sistema delle proroghe dopo i primi 45 giorni di captazioni, ha mantenuto la deroga per le inchieste sulla criminalità organizzata nelle quali, passati i primi 40 giorni, la proroga di 20 in 20 è infinita. Una scelta comprensibile, forse determinata anche dall’esigenza di tenere insieme una maggioranza in cui non tutti i partiti e non tutti i singoli parlamentari hanno alle spalle una storia perfettamente allineata alla cultura dello Stato di diritto. Ma anche forse per la scarsa conoscenza, a parte quella di qualche avvocato, della quotidianità giudiziaria, soprattutto nei processi che si celebrano al sud.

Non solo Nino Di Matteo è sospettabile, come gli ha rinfacciato lo stesso Zanettin, di vedere la mafia ovunque. Ormai in tanti, lo abbiamo letto anche nell’intervista al procuratore genovese Pinto, usano uno strumento di comunicazione piuttosto efficace per giustificare l’invasività spionistica senza limite. Quella del cosiddetto “reato-spia”, la piccola trasgressione che nasconde il grave reato o addirittura l’operato della criminalità organizzata. Per paradosso, e sapendo di essere imprecisi, potremmo dire che il furto della mela potrebbe nascondere un progetto di strage mafiosa.

Questi ragionamenti sono ogni giorno alla base di veri teoremi investigativi che spesso si infrangono solo quando incontrano, magari dopo molto tempo, qualche giudice ragionevole. Perché per fortuna ce ne sono, come il giudice Michele Morello che assolse Enzo Tortora. Ma se il sud giudiziario ha buoni motivi per piangere, anche al nord non si scherza. E non c’è solo il caso Liguria.

Proprio ieri è iniziato al Csm il procedimento disciplinare nei confronti di due magistrati torinesi, Stefano Colace e Lucia Minutella, per la scandalosa vicenda delle 500 intercettazioni cui fu sottoposto, tra il 2015 e il 2018, il senatore del Pd Stefano Esposito, senza che fosse stata richiesta autorizzazione al ramo del Parlamento di appartenenza. Una vicenda giudiziaria senza precedenti, che ha visto coinvolta, con atteggiamento molto critico nei confronti della magistratura, addirittura la Corte costituzionale. Bene, quel processo, ormai finito su un binario morto e nel quale alcune toghe hanno mostrato il peggio di sé, era iniziato con la contestazione dell’aggravante mafiosa, per appartenenza di qualche indagato alla ’ndrangheta.

Una ricostruzione cervellotica, che ha però permesso agli inquirenti l’uso di tutta la legislazione speciale “antimafia” che consente qualunque deroga. Compresa quella non ammessa di spiare per 500 volte un senatore, pur consapevoli del suo status. Sarebbe bene che i deputati che nelle prossime settimane saranno chiamati a votare la benemerita legge Zanettin facessero qualche riflessione anche su questi aspetti. Magari anche per provvedimenti di riforma del futuro.