I giudici della prima sezione penale del tribunale di Catania (Roberto Passalacqua - presidente -, Chiara Raffiotta e Chiara Catalano) hanno depositato in cancelleria le motivazioni sulla sentenza di assoluzione ( gennaio 2024) di Mario Ciancio Sanfilippo dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste. Dopo aver ripercorso gli episodi salienti del processo che si basa sulle prove dell’accusa - dal necrologio negato per il delitto del commissario Beppe Montana alla pubblicazione della lettera d un detenuto al 41 bis, sino al sostegno per la realizzazione di centri commerciali -, la Corte sottolinea che «non sia emersa la prova dell’assunto accusatorio secondo cui Mario Ciancio Sanfilippo abbia rivestito sin dal 1982 e con carattere permanente, il ruolo di concorrente esterno nell’associazione mafiosa, mettendo a disposizione la propria attività economica, finanziaria ed imprenditoriale, avente ad oggetto, tra l’altro, l’editoria, l’emittenza televisiva, la proprietà fondiaria e l’attività edilizia, promuovendo affari di interesse dell’associazione mafiosa, anche mediando con soggetti politici e della pubblica amministrazione».

E di seguito i giudici aggiungono: «Già la formulazione del capo di imputazione, che pure ha riguardato un arco di tempo vastissimo, è evanescente e in certo senso contraddittoria, in quando a fronte di una contestazione di una attività dell’imputato di “messa a disposizione” per decenni nei confronti di Cosa nostra, estesa a diversi settori e coinvolgente diverse attività di suo interesse, è per un verso priva di riferimenti e condotte e fatti specifici in astratto sussumibili nella fattispecie al reato contestato - fatti che sono stati disvelati dalla pubblica accusa e meglio precisati dalla pubblica accusa solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale.

In ogni caso - precisano i giudici -, anche i fatti specifici esaminati nel corso del dibattimento ed in cui, secondo la pubblica accusa, si sarebbe estrinsecato il contributo prestato dall’imputato in favore di Cosa nostra catanese, tra cui i fatti inerenti alla cosiddetta linea editoriale o quelli inerenti ai rapporti con esponenti di vertice di Cosa nostra riferiti dai collaboratori, non sono risultati pienamente dimostrati, né comunque dimostrativi dell’esistenza di un rapporto sinallagmatico dall’imputato con Cosa nostra». Nelle motivazioni, però, i giudici emettono un giudizio morale pesante nei confronti dell’attività editoriale di Ciancio, arrivando persino a mettere nel mirino la linea di un giornale intero, La Sicilia, uno dei quotidiani più rappresentativi dell’isola, accusato per una attività editoriale «morbida» che era stata già evidenziata dai pm nel corso del

dibattimento. «Piuttosto, quanto alla linea editoriale - scrivono i giudici - le condotte poste in essere dall’imputato sono apparse dimostrative di una elevata attitudine ad una spiccata inclinazione del Ciancio nell’esercizio dell’ampio potere finanziario, economico e di informazione detenuto per adottare soluzioni diplomatiche, volte ad evitare di crearsi inimicizie o di alimentare contrasti, sia con i poteri forti, che per le istituzioni e con la stessa criminalità organizzata, nonché - ecco uno dei passaggi più salienti della relazione relativa alle scelte editoriali - di un giornalismo di mera informazione e non di inchiesta, esercitato con una linea editoriale morbida, omettendo notizie che potessero risultare particolarmente scomode o dando notizie scevre da giudizi che potessero suscitare polemiche, senza mai “schierarsi” apertamente da una parte o dall’altra, non già o non tanto per imparzialità della direzione del giornale, quanto piuttosto con l’obbiettivo specifico di tutelare esclusivamente i propri personali interessi, nonché in taluni casi, di effettuare una rincorsa allo scoop giornalistico ad ogni costo, a scapito della privacy, dell’etica o delle esigenze di giustizia».

Sui grandi affari di Mario Ciancio, «portati avanti nel settore dell’edilizia e dell’imprenditoria», la prima sezione rileva che «non è stata raggiunta la prova della conoscenza da parte dell’imputato dell’interessamento della criminalità organizzata agli stessi». Rileva invece la Corte di aver permesso di «dimostrare l’indebita l’ingerenza nei confronti della pubblica amministrazione da parte dell’imputato, al quale, in virtù del suo potere economico finanziario e sull’informazione, è stato spesso in grado di condizionare le scelte da parte degli organi preposti all’amministrazione comunale e regionale, indipendentemente dai soggetti che vi fossero in un dato momento preposti, per la sua spregiudicata capacità di condizionale le scelte politico amministrative per le quali aveva interesse ( anche se per tali fatti- reato – precisano i giudici – non risulta al Tribunale sia stata mai neppure esercitata l’azione penale)».