Questa mattina arriva una PEC dal tribunale di Firenze con un oggetto un po’ strambo e molto burocratico. Me la inoltrano i miei avvocati mentre sto bevendo il mio secondo caffè. Già so che cosa riguarda ma apro comunque il pdf pensando chissà cosa sarà.

“Ordinanza con la quale si dispone che il pubblico ministero formuli l’imputazione coatta” (tutto in maiuscolo). Tutta questa formalità ritarda ancora di qualche secondo la registrazione cerebrale di questa informazione e “imputazione coatta” mi fa un po’ ridere (perché sono scema, lo so).

La giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta del pubblico ministero e dei miei avvocati di archiviare il procedimento a mio carico, di Marco Cappato e di Felicetta Maltese per aver aiutato Massimiliano ad andare in Svizzera.

Massimiliano voleva morire e lo abbiamo accompagnato. Il reato è istigazione e aiuto al suicidio, articolo 580 del codice penale (un articolo che precede la Costituzione e che è fascistissimo nel senso descrittivo, poi ognuno deciderà che aggettivo usare, e che prevede da 5 a 12 anni di reclusione). Istigazione no, perché ha deciso lui, ma l’ipotesi di reato di aiuto rimane.

L’8 dicembre 2022 Massimiliano è morto in Svizzera come non avrebbe voluto. Non parlo di non morire, perché era convinto e deciso e per aver cercato di fargli cambiare idea mi sono beccata qualche parolaccia, ma morire in Svizzera e non a casa sua. Una richiesta semplice e ovvia, ma impossibile. Chissà perché.

Nei mesi successivi sono successe varie cose: ci siamo autodenunciati, il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione, la giudice per le indagini preliminari ha rifiutato e ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale, la Corte ha scritto una sentenza un po’ timida (ha rigettato l’incostituzionalità del requisito del trattamento di sostegno vitale ma ne ha ampliato i confini, di fatto arrivando alla stessa conclusione ma di diritto no), il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione e ora la giudice ha deciso di non accettare e di disporre l’imputazione coatta.

La questione non è tanto la possibilità di morire a casa propria ma l’interpretazione di uno dei requisiti di una precedente sentenza della Corte, la 242 del 2019. Come dobbiamo interpretare il sostegno vitale? Come un macchinario, un aggeggio, un respiratore oppure come qualsiasi assistenza necessaria a non morire, peraltro malissimamente? Non è difficile da capire: se non posso muovermi, tutto è assistenza vitale. Se non posso alzarmi, mangiare, andare in bagno, tutto è assistenza vitale.

Che è un po’ quello che ha detto la sentenza 135 lo scorso giugno, decidendo però di non dire che quel requisito è incostituzionale – perché ingiusto, insensato, discriminatorio. Chissà perché questa timidezza.

Nonostante questo allargamento, c’è “la necessità dello stretto collegamento, ineludibile, con la natura vitale dei trattamenti di sostegno, ‘al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo’”. Che significa breve? Qual è l’unità di misura temporale?

Comunque la giudice ha deciso che “non appare esservi stata la dipendenza di Massimiliano da un trattamento di sostegno vitale, neppure nella interpretazione estensiva data dalla Corte” e ha disposto che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli la nostra imputazione.

Massimiliano muoveva ormai solo un braccio e male. Non poteva alzarsi, mangiare, andare in bagno da solo. Non dovrebbe esserci bisogno di spiegarvi le conseguenze. Aspetto quindi questi dieci giorni e penso che Massimiliano avrebbe riso di tutta questa burocrazia e che sarebbe stato contento se la sua decisione servirà anche a qualcosa. Cioè a proteggere una scelta che può essere solo la nostra.

Mentre il Parlamento dorme e scrive disegni di legge insensati e incostituzionali in culla, è stata la Corte costituzionale a dire che possiamo morire (grazie) se lo decidiamo noi e se siamo molto malati. Però questo requisito rischia di rovinare tutto.

(Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese sono difesi dal collegio legale composto dagli avvocati Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni che lo coordina, Marilisa D’Amico, Francesca Re e Rocco Berardo).