«Questo non è il processo contro i femminicidi ma un processo contro il singolo che si chiama Turetta e che risponderà dei reati che gli sono stati contestati»: sono parole forse scontate, quelle del procuratore di Venezia Bruno Cherchi, se si conosce e se si condivide l’essenza di un processo penale, ma pronunciate nella prima udienza del giudizio a carico di Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, appaiono impopolari, coraggiose e sferzanti.

Il contesto è quello appunto della morte di una giovane ragazza, avvenuta l’11 novembre 2023, per mano dell’ex fidanzato che non si voleva rassegnare alla separazione. Il 22enne è accusato di omicidio volontario pluriaggravato, occultamento di cadavere, porto d’armi e sequestro di persona. Rischia l’ergastolo.

La terribile vicenda ha colpito tutto il Paese, e ha spinto una parte significativa dell’opinione pubblica, a cominciare dal segmento più reattivo della cultura femminista, a chiedere vendetta, sentenza esemplare e a trasformare il processo in una lotta collettiva contro un fenomeno più generale. Eppure era stato proprio Giovanni Falcone ad ammonire nel «non confondere i processi con le crociate».

Stamattina ci ha pensato Cherchi: «Se si sposta questo quadro a obiettivi più ampi si snatura totalmente il processo. Il processo non è uno studio sociologico, che si fa in altre sedi, il processo è l'accertamento di responsabilità dei singoli. Questa è la posizione della Procura, e lo è fin dall'inizio, quando abbiamo detto che il processo deve svolgersi in aule giudiziarie con i diritti che anche l'imputato ha, secondo la Costituzione e il codice di procedura penale. La spettacolarizzazione di questi eventi che, lo comprendo, colpiscono l'opinione pubblica per la loro gravità, e si inseriscono in contesti più ampi che sicuramente devono essere valutati, non deve però snaturare il processo e i diritti ad esso connessi. Esistono processi importanti, certamente come questo, si tratta di una contestazione di omicidio premeditato particolarmente delicata e grave, ma devono essere svolti nell'aula di giustizia e non altrove».

Cherchi si era attirato già le antipatie di certa stampa voyeuristica quando, all’inizio delle indagini, aveva adottato la politica del silenzio da parte della Procura, e in una intervista al Corriere del Veneto aveva detto: «Vi chiedo di lasciare che le indagini proseguano, che ci sia un momento di decantazione. Dobbiamo garantire, come prevede il codice di procedura penale, i diritti all’indagato, la serenità alle parti. E soprattutto l’indagato non si deve sentire condannato prima che i fatti vengano accertati nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione. È un fatto di civiltà a cui tutti dovremmo riferirci».

E invece proprio venerdì sera, in una nota trasmissione in prima serata su Rete4, è andato in scena l’ennesimo atto della tragedia della pornografia mediatico-giudiziaria: è stato infatti mandato in onda uno spezzone dell’interrogatorio di Turetta, avvenuto il 1° dicembre 2023, preceduto dalla frase del conduttore «facciamo rumore».
Certo, si tratta di un atto non più coperto da segreto, ma quanto trasmesso è, per citare una frase riportata dal professor Vittorio Manes nel suo libro Giustizia Mediatica, «una rappresentazione spettacolarizzata dove la corretta descrizione dei fatti viene sacrificata all’impatto sull’audience. Si dà vita in tal modo a una sorta di processo parallelo incurante delle regole e delle garanzie individuali, facendo leva sull’indignazione morale del pubblico e generando scandali».

Di processo mediatico ha parlato anche l’avvocato di Turetta, il professor Giovanni Caruso: «Credo che un caso di questo tipo, tragico, che ha interessato i prossimi congiunti di Giulia Cecchettin, debba aiutare la nostra comunità a capire che Turetta merita una pena e non un processo mediatico, e che Filippo Turetta non debba diventare il vessillo di una battaglia culturale contro la violenza di genere».

Con queste parole il difensore dell’imputato si è anche opposto alla costituzione di associazioni ed enti come parti civili nel processo iniziato appunto oggi in Corte d'Assise a Venezia: il presidente della Corte, Stefano Manduzio, insieme agli altri giudici, gli ha dato ragione. Non è stata dunque ammessa la costituzione dei Comuni di Fossó e Vigonovo, né delle associazioni Penelope, Italia Odv, Udi-Aps, I care we care, Dalla parte di Marianna.

Come disse in un’intervista, qualche anno fa su questo giornale, Ennio Amodio, «la presenza della parte civile è incompatibile con il ruolo garantistico che deve avere il processo accusatorio».

Il legale di Turetta ha poi precisato, parlando con i cronisti, che il suo assistito «verrà in aula quando sarà il momento: oggi, visto il contingentamento, gli ho suggerito io di non venire. Non è una mancanza di rispetto verso la Corte né dei prossimi congiunti di Giulia Cecchettin: è detenuto e sta scontando ed espiando la sua pena. Sarà una pena consistente, importante, una pena di giustizia che deciderà la Corte d’Assise di Venezia».

L’esame di Turetta è previsto per il 25 e 28 ottobre. I giudici hanno accolto l'accordo tra la Procura e la difesa di non sentire alcun testimone, dando per assodato tutto quanto emerso nelle indagini e confluito nel fascicolo della Procura. La conseguenza è un calendario sprint di quattro udienze, tra l'ascolto di Turetta, la requisitoria, l'intervento delle parti civili ammesse, il padre e la sorella della vittima, e l'arringa.

La sentenza, come comunicato dalla Corte, dovrebbe arrivare il 3 dicembre. Il legale del giovane non ha chiesto una perizia psichiatrica e ha smentito che il suo assistito, dal carcere, abbia potuto dire quanto riportato da alcuni organi di stampa e cioè: «Il mio pensiero va alla mia famiglia, a mio fratello e ai miei genitori, che vengono continuamente fermati dai giornalisti».

Parole di grande dignità quelle di Gino Cecchettin, padre della vittima: «Non mi auguro nessun tipo di vendetta o di favore, sono sicuro che i giudici decideranno al meglio. Ho piena fiducia nelle istituzioni, la pena che decideranno i giudici sarà quella giusta». L’uomo, tramite un'istanza presentata dal proprio legale, ha chiesto un milione di euro come risarcimento dei danni subiti per l'omicidio della figlia.