PHOTO
Fatti troppo lontani nel tempo. Condotte non chiare. Reati riconducibili al singolo e non ad una associazione. E soprattutto nessuna prova della forza intimidatoria espressa sul territorio. È un’ordinanza complessa e paradossalmente inusuale quella firmata dal gip di Milano Tommaso Perna, che ieri ha negato alla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e alla sostituta Alessandra Cerreti l’arresto di 140 persone. Inusuale perché rappresenta uno dei pochi casi “visibili” di non appiattimento del gip alle richieste della procura, che ha già annunciato ricorso al Riesame. Alla fine le misure cautelari sono scattate “solo” per 11 indagati con le accuse, a vario titolo, di porto d'armi, due estorsioni aggravate dal metodo mafioso, minaccia aggravata, traffico di droga ed evasione fiscale. Ma nulla a che vedere con la presunta joint venture tra mafia, ’ndrangheta e camorra nell’hinterland milanese descritta dalla Dda, che indaga sul punto dal 2019. Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, in Lombardia sarebbe attiva una «confederazione mafiosa» totalmente nuova, che affonderebbe le proprie radici nel tentativo della riorganizzazione della locale di ’ndrangheta di Lonate Pozzolo (Varese), come dichiarato dal pentito Emanuele De Castro. Accanto alle ’ndrine ci sarebbero fedelissimi di Matteo Messina Denaro e presunti emissari del clan camorristico dei Senese che, pur nel rispetto dei legami con le cosche d'origine, avrebbero creato una «propria organizzazione», con «un proprio e autonomo programma», «proprie regole e ritorsioni per chi le viola» e che «agisce in modo indipendente rispetto alle singole componenti», capace anche di «contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario». Ma di ciò, secondo il giudice Perna, non ci sarebbero indizi sufficienti: «Una volta affermata la natura innovativa, addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione, della consorteria in disamina - si legge nelle oltre 2mila pagine di ordinanza -, sarebbe stato onere dell'organo requirente quello di individuare e tipizzare un’autonoma associazione criminale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, ciò al fine di accertare che tale associazione si sia radicata in loco con le peculiari connotazioni descritte, acquisendo, in particolare, la forza d’intimidazione richiesta per l’integrazione degli estremi dell’associazione di tipo mafioso». Tale prova, invece, «è nel caso di specie del tutto assente». E sarebbe stato necessario uno «sforzo argomentativo e dimostrativo superiore a quello che emerge dal complesso degli atti di indagine analizzati».
Perna evidenzia come la tesi della federazione sia rimasta «una mera ipotesi investigativa, non sufficientemente suffragata dagli elementi di prova raccolti». Per un verso, infatti, «i sia pur esistenti elementi indiziari sono stati esponenzialmente elevati al rango di prove, per altro verso, non si è tenuto conto di tutti quelli contrari esistenti, sminuendone la portata, ciò al fine di sostenere un postulato che trova scarsa aderenza con il dato fattuale». La richiesta cautelare, dunque, «si dimostra piuttosto carente sotto molteplici punti di vista»: dalla «individuazione degli elementi a suffragio della dedotta capacità intimidatoria in senso estrinseco» alla «struttura del sodalizio», passando per la «prova della partecipazione al sodalizio e affectio societatis» per finire alla «valutazione degli elementi indiziari di segno contrario». Insomma, non basta la teoria: serve la pratica. E non si possono arrestare centinaia di persone se non ci sono sufficienti indizi.
Il quadro indiziario, infatti, non risulterebbe grave «con riguardo a due dei tre reati associativi contestati, in particolare, l’associazione di stampo di tipo consortile» e l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Cosa che ha «innegabili ricadute sull’intero impianto accusatorio - continua il giudice -, essendo evidente che, una volta venuta meno la prova dell’esistenza dei due sodalizi predetti, ne consegue che le esigenze cautelari vanno valutate sulla scorta di quel che emerge dai singoli reati-fine di cui si è raggiunta la prova, senza potere desumere presuntivamente l’esistenza della pericolosità sociale dei singoli indagati dalla prova della permanenza del vincolo associativo». Affinché si possa parlare di associazione mafiosa, spiega Perna, «è indispensabile» la prova in positivo «della concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria». Ma «non è stato individuato alcun atto di intimidazione posto in essere da parte degli odierni indagati nello svolgimento delle più svariate attività economiche ad essi riconducibili». Una circostanza che «desta ancor più stupore se si considera che, nell’ottica accusatoria, il sodalizio di tipo confederativo ipotizzato ha dovuto necessariamente occupare tutti gli spazi della vita politica ed economica della provincia milanese».
Nonostante questa ipotesi, «non si è registrata alcuna forma di violenza o minaccia» e «persino gli episodi estorsivi, così come la disponibilità di armi» oltre che «limitati nel numero e qualitativamente non “gravi”» sono rimasti «per lo più indimostrati». E non c’è nemmeno la prova di «elementi fattuali specifici da cui poter desumere che la collettività di riferimento ha comunque percepito l’esistenza di un gruppo criminale di stampo mafioso, venendo condizionata e soggiogata dalla sua forza di intimidazione latente, implicitamente desunta dal contesto e sopportata con atteggiamento omertoso». Insomma, nessuno si sarebbe accorto di niente. Da qui la conclusione: «Nel bilanciamento tra il pregiudizio (minimo) per la collettività e quello (massimo) per il soggetto attinto dalla misura, si è ritenuto di privilegiare il secondo». Insomma, c’è un giudice a Milano.