La visita, seppur inquadrata in chiave istituzionale, della premier Giorgia Meloni, del ministro Nordio e del sottosegretario Mantovano presso la sede della direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo stimola una riflessione che ci conduce a considerazioni più ampie sull’attuale rapporto tra politica e magistratura.

Tutto si colloca in un quadro in cui la riforma dell’abuso d’ufficio è impantanata perché ritenuta reato-spia e in contrasto con l’Europa proprio dal procuratore nazionale Antimafia, così come la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm è in stand by. Non è stata data attuazione neanche alla delega sui criteri di priorità nell’azione penale. In questo scenario l’unica dimensione sicuramente salda sugli strumenti di tutela è quella della Procura nazionale Antimafia. Il dottor Melillo, da quando era capo di Gabinetto del ministro Andrea Orlando, ha sempre avuto le idee molto chiare, e adesso le sue richieste – come già nella vicenda della sentenza “Cavallo” delle Sezioni unite – vengono sollecitamente recepite dal governo. Lo si è visto con il decreto correttivo anche di una sola pronuncia della Cassazione (confermativa anche di precedenti decisioni delle Sezioni unite)sulla criminalità organizzata e in tema di intercettazioni telefoniche. Non dico sia giusto o sbagliato quanto accaduto, ma molti magistrati hanno sostenuto che la questione si poteva risolvere re-investendo le Sezioni Unite.

Sempre su richiesta della Procura nazionale Antimafia si sono realizzati server centralizzati delle intercettazioni, giustificati da questioni organizzative: la ritengo una scelta che avrebbe richiesto maggiore ponderazione. Assistiamo dunque a una politica genuflessa alle istanze di certa magistratura. Lo ricordava persino il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia in un convegno sulla separazione delle carriere: «La politica, paradossalmente, sembra sedotta talvolta dalle istanze della magistratura requirente». Io aggiungerei “dalla magistratura antimafia”, quella a cui non si può negare nulla perché la lotta alla mafia, in chiave “dogmatico-sacrale” e non “laica” secondo i principi costituzionali del diritto penale, come direbbe il professor Giovanni Fiandaca, non può mai essere messa in discussione.

Il governo invece talvolta dovrebbe avere il coraggio di contrapporsi ad essa e alla magistratura in generale. Come? Rivendicando e non paradossalmente affossando la separazione delle carriere, il cui rinvio è ora giustificato dalla riforma del premierato: la separazione era stata peraltro ripetutamente e ancora di recente promessa, senza dimenticare quanto la si fosse sbandierata in campagna elettorale. Di rinvio in rinvio non se ne farà nulla. Urge... attendere! E però se la si portasse a casa, si limiterebbero certi poteri che ora sono troppo concentrati nella Procura nazionale Antimafia così come in quella europea. E non mancano i giudici che sottovoce lamentano questo potere delle Procure come recenti episodi dimostrano. Se si obietta che la separazione rafforzerebbe poteri già solidi, va detto che forse tutelerebbe invece meglio i poteri decisionali dei giudici e la loro indipendenza. Ma prevale il pessimismo: non credo che questa maggioranza e il governo abbiano la forza di opporsi.