PHOTO
MARGHERITA CASSANO PRESIDENTE CORTE DI CASSAZIONE
La risposta al sottosegretario Alfredo Mantovano, che poco prima aveva pronunciato parole dure contro il diritto sovranazionale, che metterebbe a rischio la sovranità popolare, è arrivata tramite le parole della Prima presidente della Cassazione Margherita Cassano. Un intervento pacato e interrotto da lunghi applausi e perfino una standing ovation il suo, una replica tra le righe che è partita dal ricordo del professor Guido Alpa e dei «tre volumi curati dalla scuola della magistratura per diffondere tra magistrati e avvocati la conoscenza approfondita del diritto sovranazionale», un chiaro riferimento alle parole del sottosegretario.
Nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf, Cassano ha ribadito l’importanza di «proseguire un dialogo che non si è mai interrotto» tra avvocatura e magistratura, sulle quali grava una comune responsabilità, «quella di concorrere alla realizzazione dello Stato di diritto» e, in particolare, l’effettività della tutela dei diritti fondamentali della persona attraverso la garanzia di un giusto processo». E in questo quadro l’avvocato «è un protagonista ineliminabile della giurisdizione», colui che introduce nel processo la domanda della parte e la sua richiesta di tutela, «sia nella dimensione individuale che nella proiezione sociale». Proprio per tale motivo magistrati e avvocati dovrebbero trascendere dalle singole polemiche, «che non fanno bene allo Stato di diritto», per condividere «una visione di ampio respiro» e rinsaldare la fiducia «che i cittadini devono riporre nelle istituzioni».
Per farlo, bisogna analizzare le questioni fondamentali, come il rapporto tra legge e giurisdizione, «che vede nel nostro sistema una produzione legislativa intensa», superiore alla media europea, e che «rischia di provocare disorientamento nella collettività, di inviare messaggi confliggenti a seconda del contingente momento politico». Una proliferazione ascrivibile a diversi fattori. Da un lato alla «sollecitazione di un corpo sociale sempre più dilacerato, incapace di darsi autonomamente regole di civile convivenza fondate sulla condivisione dei valori costituzionali e alla costante ricerca di un intervento autorizzativo esterno che rischia di ridurre quel ruolo di cittadinanza attiva e solidale che è delineato dall’articolo 2 della Carta fondamentale». Dall’altro, invece, al «ruolo spesso simbolico della legge, allo scopo di dare risposta a fenomeni sociali».
Ma non solo: Cassano ha criticato anche lo spostamento dell’esercizio del potere legislativo dalla sua fisiologica sede - il Parlamento - alla sede del governo, «che agendo in situazione di necessità e urgenza» rende difficile coordinare le leggi tra loro e abrogare quelle che sono in contrasto, creando un quadro normativo più complicato. Questo rende più intricato anche il lavoro di magistrati e avvocati nel cercare di interpretare le leggi e applicarle correttamente a ogni caso.
Un altro problema sollevato da Cassano riguarda l’ambiguità e la molteplicità di significati delle leggi, che spesso porta a considerarle come semplici testi da applicare meccanicamente, riducendo il diritto a un insieme di esperienze pratiche, senza una comprensione profonda del suo significato e della sua applicazione. Un tema che si lega a quello della responsabilità condivisa tra avvocati e magistrati nell’affrontare le sfide del diritto, in particolare quando le domande che provengono dalla società non trovano una risposta diretta e chiara nella legislazione.
Un vuoto normativo che mette avvocati e magistrati di fronte a una «drammatica alternativa culturale»: alzare le mani in segno di reso o andare oltre, cercando soluzioni giuridiche in base ai principi più ampi e fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle leggi sovranazionali. Una sorta di «ricostruzione del sistema» attraverso l’attività di interpretazione. Cassano ha anche sottolineato l’importanza della motivazione nelle decisioni giudiziarie, che non è solo un obbligo, ma una garanzia: se il giudice non espone in modo trasparente i motivi della sua decisione, infatti, rischia di compromettere il diritto dell’avvocato di fare una valutazione informata sulla probabilità di successo di un ricorso, contribuendo a creare un «quadro di riferimento» confuso, dove la coerenza e la prevedibilità delle decisioni viene messa a rischio.
La conseguenza di questa «indiscriminata giustiziabilità» può portare a una «risposta non sempre coerente», minando la stabilità del sistema giuridico. Senza una motivazione adeguata, dunque, la decisione rischia di apparire arbitraria, minando la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario. Ma in ciò la responsabilità appartiene anche agli avvocati, che attraverso il loro lavoro e le domande che pongono contribuiscono a «sollecitare» il giudice a mantenere un alto livello di razionalità e coerenza.
E nonostante le nuove tecnologie, la complessità del diritto rende impossibile sostituire il giudice con strumenti tecnici. Perché il diritto vive di sfumature, interpretazioni e confronti che solo la mente umana è in grado di cogliere appieno. L’ordinamento giuridico, dunque, non può basarsi sulla «pigrizia intellettuale» o sul conformismo di applicare pedissequamente precedenti e regole senza una riflessione critica. Il giudizio deve evolversi, deve rispondere alle esigenze mutevoli della società e deve farlo attraverso un continuo aggiornamento delle sue risposte.
È necessario, perciò, un «patto per il futuro» che veda magistrati e avvocati lavorare insieme per rispondere alle domande sociali che la legge non riesce sempre a coprire, soprattutto quando ci sono lacune o sfide nuove. Un «nuovo umanesimo» in cui il diritto torni a essere un campo di profonda umanità, che sappia evitare l’errore giudiziario «che è la situazione più tragica che possa verificarsi nella vita di ogni persona», e rispetti le emozioni, le necessità e le ragioni delle persone coinvolte nel processo.