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IMAGOECONOMICA
La supremazia del contraddittorio, l’osservanza del dubbio, l’umiltà, il senso del limite, il rifiuto del culto della personalità. È un discorso intenso e come sempre mai banale quello di Margherita Cassano, prima presidente della Corte di Cassazione, interrotta più volte dagli applausi della platea dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf.
Un discorso col quale Cassano ha ribadito il dialogo avviato da magistratura e avvocatura, categorie sulle quali «grava una comune responsabilità, quella di concorrere alla realizzazione dello Stato di diritto», che si fonda sui valori della Costituzione, primo fra tutti «la tutela dei diritti fondamentali della persona attraverso la garanzia di un giusto processo». Cassano ha ribadito la centralità del difensore, «protagonista ineliminabile della giurisdizione», perché tutela la persona «sia nella dimensione individuale che nella proiezione sociale quale delineata dalla carta fondamentale». Il tutto nel rispetto della garanzia del contraddittorio, che rappresenta «l’essenza, l’ontologia del processo», che tende alla verità processuale grazie al confronto tra le diverse tesi. Una posizione che rende l’avvocato anche il garante, da parte del giudice, «della metodica del dubbio, fondata sul principio popperiano della falsificazione, la cui omessa osservanza può avere drammatiche conseguenze sulla vita delle persone».
Alla base del lavoro di avvocati e magistrati alcune precondizioni culturali comuni, come la complessità dell’interpretazione delle norme nazionali e sovranazionali e della giurisprudenza di tutte le corti, onere che deve tradursi in «rigore metodologico, nella chiara enunciazione dell’opzione esegetica prescelta, nell’attenta confutazione di possibili tesi alternative, nella ferrea logica, nella selezione delle massime di esperienza e nello sviluppo dell’argomentazione giuridica». C’è poi lo sforzo di confronto «in un circuito di nomofilachia allargata, che si nutre non solo del dialogo tra giudici di merito e di legittimità, ma anche dell’apertura alle sollecitazioni provenienti dall’intera comunità di giuristi», con una costante verifica degli orientamenti giurisprudenziali «rispetto all’adeguatezza della risposta nei confronti di un corpo sociale in continuo divenire».
È necessario cimentarsi con i nuovi istituti introdotti dalle riforme, che indicano nuovi possibili modelli culturali, ma anche recuperare l’oralità e il contraddittorio, ripudiando tesi precostituite per recuperare la «dimensione di comunità giuridica» indebolita dal Covid. E il magistrato deve dialogare con l’avvocatura, per trovare insieme «le migliori soluzioni, non solo giuridiche ma anche organizzative», aspetti che sono legati tra loro. Proprio per tale motivo il Csm sta elaborando previsioni apposite, «anche se vi devo confessare - ha commentato la prima presidente - che è un po’ triste che ci sia bisogno di inserire norme di tipo secondario per introdurre una previsione che fa parte dell’etica professionale del magistrato».
Bisogna, inoltre, «ritrovare un linguaggio comune per pretendere, ove necessario, riforme organiche dei vari settori, rifuggendo però da particolarismi e piccoli egoismi professionali a scapito della coerenza complessiva del sistema», ha aggiunto Cassano, rifuggendo, nell’epoca dell’intelligenza artificiale, «da ogni forma di pigrizia e di conformismo intellettuale, nella profonda e condivisa convinzione che l’adeguatezza della risposta giuridica impegna ciascuno dei suoi attori ad uno studio critico, attento e scrupoloso, in grado di sottoporre a costante verifiche precedenti approdi interpretativi», ricordando che la ragionevole durata del processo non può essere raggiunta prescindendo dalla complessità del ragionamento giuridico.
Infine «l’umiltà, il senso del limite, l’assenza di certezze precostituite», evitando, per quanto possibile, «l’errore giudiziario che è la situazione più tragica che incide irrimediabilmente sulla vita delle persone e questo è un altro imperativo morale categorico che vale per ciascuno di noi, magistrati e avvocati». Le aule di giustizia, dunque, non devono trasformarsi in arena o, peggio, in palcoscenici sui quali «affermare la propria personalità. Non è questo il senso della professione del magistrato, né di quello di avvocato». Perché indossare la toga è un onore e un onere, per realizzare definitivamente lo Stato di diritto.