Piercamillo Davigo era consapevole «del corretto percorso istituzionale da suggerire a Storari per superare la situazione di stallo che questi ebbe a rappresentargli prima di procedere alla rivelazione del segreto». E date le cautele imposte dalla presenza di notizie segrete e il non complicato regolamento del Consiglio superiore della magistratura sulla gestione di materiale simile, i giudici di merito hanno agito «correttamente» nel condannarlo per rivelazione, dato anche lo «spessore professionale del ricorrente e delle sue specifiche competenze acquisite nel tempo anche sul piano ordinamentale». Con queste parole la Cassazione motiva la condanna definitiva inflitta all’ex pm di Mani Pulite per rivelazione di segreto in concorso con il pm Paolo Storari, assolto invece da tutte le accuse. La vicenda è quella relativa alla diffusione dei verbali di Piero Amara, consegnati dal pm milanese a Davigo per «sbloccare le indagini» sulla presunta Loggia Ungheria, ferme per via della presunta inerzia da parte dei vertici della procura di Milano. Davigo, anziché suggerire al collega di seguire le vie formali, a lui ben note, sottolineano i giudici di Cassazione, diede la disponibilità di sottoporre la questione al Csm e successivamente invitò diversi consiglieri di Palazzo Bachelet a prendere le distanze dall’ex amico Sebastiano Ardita (parte civile nel processo, difeso dall’avvocato Fabio Repici), inserito in maniera falsa in quella lista. La Cassazione ha però annullato con rinvio il punto successivo della condanna, quello relativo alla diffusione a terzi di quei verbali: Davigo, infatti, non si limitò a parlarne con i membri del Comitato di Presidenza, ma informò diversi membri del Csm, le sue segretarie e l’ex presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, in virtù del presunto coinvolgimento di Ardita nell’ipotetica Loggia. E il nuovo giudizio d’appello dovrà stabilire se le ulteriori condotte di Davigo possano configurarsi come autonome e, in tal caso, verificare la sussistenza dei presupposti per una nuova responsabilità penale.

La Cassazione ha smontato il ricorso della difesa di Davigo - rappresentato dagli avvocati Franco Coppi e Davide Steccanella, sottolineando che fu certamente Storari a chiedere l’incontro con Davigo. Ma pur essendo stata una scelta distonica quella di contattare informalmente l’ex pm per veicolare al Csm il suo problema, la sua scelta è stata «decisamente supportata dal comportamento rassicurante sotto tale profilo tenuto» da Davigo, «dall’alto della posizione all’epoca rivestita, oltre che in ragione di una incontroversa autorevolezza acquisita nel tempo grazie al suo percorso professionale». La via istituzionale da seguire - ovvero quella di sottoporre la questione al procuratore generale della Corte d’Appello - «non presentava margini di incertezza forieri di dubbi applicativi», mentre le modalità scelte risultano «poco compatibili con la serietà e delicatezza dei temi in gioco». E che quella standard fosse «senza incertezza di sorta, sul piano ordinamentale, la corretta via istituzionale da seguire, è aspetto» che Davigo «ha mostrato non solo di conoscere, ma anche di condividere, affermando, nel corso del suo esame dibattimentale, che tale modalità di azione non venne in concreto privilegiata a causa della ridotta affidabilità della persona che all’epoca temporaneamente rappresentava l’Ufficio della Procura generale milanese». Un dato mai negato dall’ex pm e che assume «una assorbente decisività nell’ottica della confermata affermazione di responsabilità, anche sotto il versante soggettivo». Anche a voler ritenere che le dichiarazioni di Amara potessero investire il Csm, «una tale prospettiva, infatti, non consentiva e non consente comunque di ritenere le esigenze sottese al segreto investigativo, apposto sui relativi verbali di interrogatorio, recessive rispetto a quelle di acquisizione “consiliare” dei relativi dati conoscitivi, per l’evidente erroneità della ricostruzione della pertinente normativa di riferimento». La norma primaria, infatti, impone il segreto e pur esistendo circolari - fonti secondarie - che consentono di accedere ad atti coperti dal segreto investigativo, l’Ufficio giudiziario procedente può sempre rifiutarne l’ostensione. «Il che, ancora una volta, rendeva manifestamente inconferente la soluzione privilegiata dai due concorrenti, vieppiù se filtrata alla luce della imprescindibile comparazione tra la delicatezza della materia gestita, per la rilevante connotazione pubblicistica delle ragioni sottese all’apposizione del segreto investigativo, e la chiarezza del percorso istituzionale predisposto dall’ordinamento».

Insomma, l’iniziativa è stata di Storari, ma lo stesso «ha trovato un supporto di rilievo nell’opera di convincimento, di sostanziale persuasione e di adeguato consolidamento dell’altrui agire operata dal ricorrente sul concorrente, dissolvendone le incertezze dall’alto della sua indiscussa autorevolezza professionale e in considerazione dello specifico ruolo istituzionale all’epoca rivestito». La scelta di bypassare le procedure previste fu «del tutto personale e marcatamente arbitraria», attivando «consapevolmente», per ragioni di evidente gratuità rispetto all'importanza dei temi in gioco», un percorso «alternativo per forza di cose destinato a mettere in pericolo la riservatezza della notizia coperta dal segreto investigativo». I giudici dovranno ora valutare la sussistenza dei presupposti della responsabilità di Davigo per le divulgazioni successive al concorso nella rivelazione di Storari, «divulgazioni verificatesi nella sua qualità di soggetto tenuto al segreto perché componente del Consiglio superiore della magistratura e, dunque, valutando le relative condotte in considerazione degli obblighi specificamente derivanti da tale funzione istituzionale».