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Sono stati rinviati a giudizio il procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro (oggi in forza alla procura europea), accusati di rifiuto d’atti d’ufficio per non aver depositato prove favorevoli alle difese del processo Eni-Nigeria.
I due magistrati, a novembre scorso, avevano chiesto il rinvio della decisione del giudice Christian Colombo ad oggi, per attendere l’entrata in vigore della riforma Cartabia, che affida al gup un effettivo potere di filtro. Ciò nella speranza di una sentenza di “non luogo a procedere”, richiesta dalla norma quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna” dell'imputato. Ma per il giudice gli elementi sarebbero tali da poter supporre, ragionevolmente, un esito negativo per i due magistrati, che hanno rappresentato l’accusa nel processo per la più grande tangente mai ipotizzata in Italia, conclusosi a marzo 2021 con l’assoluzione di tutti gli imputati - tra i quali l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni -, anche in assenza di quelle prove che oggi sono costate il rinvio a giudizio alle due toghe. E a nulla, per salvarli dal processo, è servita nemmeno l’inusuale lettera - depositata in udienza preliminare - scritta dal presidente del Gruppo di lavoro dell’Ocse, Drago Kos, che aveva definito i due magistrati «esempi luminosi per altri pm in tutto il mondo», criticando invece l’Italia per l’alto numero di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale, primo fra tutti proprio Eni-Nigeria.
Secondo la procura di Brescia - titolare delle inchieste sui magistrati milanesi - i due pm avrebbero tenuto in un cassetto prove ritenute fondamentali, tanto da suscitare il severo rimprovero dello stesso presidente del collegio giudicante, che ha duramente criticato i due magistrati nelle motivazioni della sentenza Eni. Tra le prove omesse c’è un video girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica - e smentita - “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna (ex manager del cane a sei zampe e principale accusatore della società nel processo) di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo l’incontro immortalato in quel video, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società.
Il contenuto del video, per i giudici che hanno assolto i vertici Eni, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Ma c’è di più. Il pm milanese Paolo Storari aveva infatti avvisato i colleghi della possibilità che Armanna e Amara fossero due calunniatori. Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, infatti, Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono dell’ex manager, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Il ruolo di Eke nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Armanna aveva inoltre prodotto delle conversazioni whatsapp con l’ad Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata, per dimostrare come gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione e guadagni importanti tramite la società nigeriana Fenog. Ma secondo una perizia informatica richiesta dall’aggiunta Laura Pedio sul telefono di Armanna - clamorosamente mai sequestrato prima del luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente al Fatto Quotidiano - quelle chat sarebbero un falso clamoroso.
Secondo la perizia, i messaggi che l’ex manager ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico. Fatti ignorati dai due pm, che però hanno tentato di inserire - senza riuscirci - Amara nel processo, sfruttando solo una parte delle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati del processo Eni-Nigeria sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada. Una notizia poi rivelatasi infondata: la procura di Brescia, infatti, ha archiviato l’indagine senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati.
La prima udienza del processo si terrà il 16 marzo prossimo. Secondo la difesa dei due magistrati, rappresentata dall'avvocato Caterina Malavenda, da parte di De Pasquale e Spadaro non ci fu un omissione contraria ai loro doveri, ma una una scelta che rientrava nelle loro prerogative. E le stesse toghe, nell’udienza del 2 novembre, avevano rispedito al mittente le accuse: «Abbiamo operato nel pieno rispetto dei doveri d'ufficio», avevano sottolineato, sostenendo di essere rimasti nei margini della «discrezionalità» concessa a chi indaga, che non è espressione di rigidi paletti e di non aver depositato quegli elementi per via delle modalità di trasmissione degli stessi da parte di Storari. Al processo hanno chiesto di costituirsi parte civile Gianfranco Falcioni (assistito dagli avvocati Gian Filippo Schiaffino, Pasquale Annichiarico e Federica Cirella), l’imprenditore in affari con Eni ed ex viceconsole onorario in Nigeria imputato nel processo sulla presunta maxi tangente, che si ritiene vittima dell’omissione dei pm.