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Carlo Nordio, ministro della Giustizia
C’è un aspetto sul quale si rischia di non riflettere con sufficiente attenzione, nella frenesia del day after, cioè a poche ore dalla sentenza costituzionale sull’autonomia: la separazione delle carriere resta la sola vera grande riforma alla portata del centrodestra.
La legge Calderoli è stata in gran parte smontata, checché ne dica il diretto interessato. Il premierato è ormai un obiettivo che va in dissolvenza: non si capisce se e quando il governo e il Parlamento ritroveranno davvero convinzione su quel dossier. Restano le carriere. Le carriere dei magistrati. Il ddl costituzionale di Nordio è l’unica “bandiera” che non sembra compromessa da bocciature o pregiudizi di qualche tipo.
E che non a caso, da alcuni mesi a questa parte, almeno dall’estate scorsa, è indicata come la priorità non solo da Forza Italia ma anche da FdI e Lega. Ed è anche in virtù dello scenario generale – stravolto soprattutto dalla pronuncia della Consulta sull’autonomia differenziata, pronuncia di cui forse la maggioranza fatica a comprendere la reale portata – che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, autore della riforma costituzionale sulle “carriere”, alza sempre più l’asticella della sfida. Nel senso che accorcia continuamente la tabella di marcia verso l’approvazione definitiva.
Adesso, per il guardasigilli e, quindi, per la premier Giorgia Meloni, il traguardo è addirittura settembre, al massimo ottobre 2025. Anzi: la conclusione della doppia navetta fra Camera e Senato del ddl costituzionale di Nordio dovrà chiudersi ancora prima: a luglio del prossimo anno.
Il titolare di via Arenula aveva fatto capire di puntare su un timing serratissimo già nel doppio vertice con lo stato maggiore del centrodestra sulla giustizia convocato lo scorso 29 ottobre: aveva chiesto di rinunciare agli emendamenti di partito. E così è stato: la Lega ha messo da parte la modifica con cui pretendeva di revocare il vincolo, per l’Italia, al rispetto dei trattati internazionali, in modo che non prevalessero più sulla legislazione interna. Un’idea con cui Matteo Salvini, e il suo capogruppo in commissione Affari costituzionali Igor Iezzi, confidavano di potersi sbarazzare delle pronunce giudiziarie sfavorevoli sui migranti. Nulla di fatto: la proposta è stata derubricata da emendamento a proposta di istituire, al Senato, una mini-indagine conoscitiva.
Analoga rinuncia ha compiuto Forza Italia: addio modifica dell’articolo 3 del ddl Nordio nella parte in cui anche la nomina dei consiglieri superiori laici deve avvenire mediante sorteggio. Certo, l’obiezione “filosofica” alla base della proposta azzurra aveva una sua solidità: è complicato immaginare che i vicepresidenti dei due futuri Csm (uno per i giudici l’altro per i pm) debbano essere estratti a sorte, seppur da una platea di avvocati e accademici preliminarmente eletta. Ed è vero, come aveva rammentato il capogruppo di FI in Prima commissione alla Camera Paolo Emilio Russo, che i due vertici dei futuri Consigli superiori saranno pur sempre, come già oggi, i vice del Capo dello Stato, che resterà presidente di entrambi gli organi.
Tutto vero. Ma Nordio, il 29 ottobre, è stato chiaro: «Evitiamo modifiche che possano rallentare il percorso». Anche perché, di rallentamenti, com’era prevedibile, già ce ne sono, in questa prima lettura, per via dell’incrocio con la sessione di Bilancio. Tanto è vero che la riforma andrà sì in discussione generale il 29 novembre, ma poi rischia di essere approvata dall’Aula solo ai primi di gennaio.
Ciononostante, nelle ultime ore, il guardasigilli è stato chiarissimo, con chi ha avuto modo di parlargli in forma riservata: l’attesa prolungata per l’ok a Montecitorio non cambia la tabella di marcia. Il primo sì sulla riforma in Senato resta programmato per marzo. Poi bisognerà attendere i tre mesi previsti dall’articolo 138 della Costituzione. E già a giugno ecco che la separazione delle carriere riapparirà alla Camera per il primo giro della seconda navetta. Poche settimane e ripasserà a Palazzo Madama. Entro fine luglio, o comunque prima della pausa estiva, la modifica costituzionale avrà compiuto il suo percorso parlamentare.
Non è finita qui. Perché negli scambi intercorsi in queste ore nel governo e nella maggioranza, Nordio ha rassicurato anche sulla tenuta dell’altro pilastro: il referendum confermativo. «Non dobbiamo temerlo, anzi. Diciamola tutta: dopo trent’anni di conflitto fra politica e magistratura, solo se ci sarà il sigillo del voto popolare si potrà dire di aver ripristinato, con la riforma, il corretto equilibrio tra i poteri».
Un ragionamento coraggioso, condivisibile, ma che comporta dei rischi: è un “all in”. Inevitabile, d’altra parte. Il referendum non può essere aggirato: raggiungere la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione è pressoché utopistico. Ed è chiaro che chi si oppone alla separazione delle carriere, la magistratura innanzitutto, solleciterà i soggetti titolati, a cominciare dai parlamentari d’opposizione, affinché chiedano il referendum.
Anche qui Nordio ipotizza tempi brevissimi: poche settimane dopo il voto finale in Senato (e non certo dopo i tre mesi previsti dalla Carta come tempo massimo) si andrà alla consultazione popolare.
Dovranno correre tutti, evidentemente: anche gli avversari del “divorzio” fra giudici e pm. Ma per il guardasigilli non bisogna preoccuparsi. Perché, è l’altro, l’ultimo segmento della riflessione che Nordio ha condiviso all’interno dell’Esecutivo, «la vittoria al referendum sulle carriere dei magistrati sarà a portata di mano se solo la comunicazione politica verrà affidata a una semplice domanda: siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete, votate sì al referendum confermativo».
Semplice, è vero. E piuttosto efficace, in effetti. Ma una cosa è certa: è davvero un “all in”. Perché dopo la batosta sull’autonomia e la disillusione sul premierato, il centrodestra delle grandi riforme, sul ddl Nordio, si gioca davvero tutto.