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Peccato che il consigliere superiore della magistratura Pier Giorgio Morosini sia stato o si sia sentito frainteso nella sua recente intervista al Giornale di Sicilia, nella quale anch’io, come Piero Sansonetti, avevo intravisto il riconoscimento rammaricato di una partecipazione attiva di alcune toghe inquirenti a quello che si usa chiamare il circuito mediatico- giudiziario. Peccato davvero, si sarebbe aggiunto a quei pochi che lo hanno invece fatto come Violante e Nordio. Rapporto politica- giustizia l’occasione persa di Morosini
Peccato che il consigliere superiore della magistratura Pier Giorgio Morosini sia stato o si sia sentito frainteso nella sua recente intervista al Giornale di Sicilia, nella quale anch’io, come Piero Sansonetti, avevo intravisto il riconoscimento rammaricato di una partecipazione attiva di alcune toghe inquirenti a quello che si usa chiamare il circuito mediatico- giudiziario, grazie al quale si usano gli avvisi di garanzia, e relative indagini, ai fini della lotta politica.
Peccato davvero perché mi sarebbe piaciuto che un magistrato dell’esperienza di Morosini, su un fronte poi così difficile come quello della lotta alla mafia, avesse deciso di contribuire a togliere dall’isolamento culturale, chiamiamolo così, in cui sono finiti alcuni suoi illustri colleghi o ex colleghi - fra i quali cito per semplificazione solo, rispettivamente, Carlo Nordio e Luciano Violante - che invece hanno fatto quel pur doloroso riconoscimento.
L’ex presidente della Camera Violante è arrivato a dire più volte con pungente ironia che, prima ancora di separare le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, se mai si riuscirà davvero ad arrivarvi, basterebbe forse separare le carriere oggi uniche dei pubblici ministeri e dei giornalisti. Delle cui notizie si servono i politici con crescente e inquietante frequenza per combattere i loro avversari o concorrenti, a volte persino all’interno dello stesso partito.
Così, peraltro, non solo si imbarbarisce la lotta politica, come sta avvenendo quanto meno dall’epoca per niente gloriosa, per me, di Mani pulite, la famosa inchiesta sul diffusissimo finanziamento illegale della politica che procurò la morte della cosiddetta prima Repubblica, ma si rovescia letteralmente lo spirito e il significato dell’avviso di garanzia. Che funziona non più a beneficio dell’indagato, come vuole la legge, ma a beneficio solo dell’accusa.
Il giudice Morosini mi sembra convinto che i pubblici ministeri non abbiano avuto e non abbiano ruolo nel circuito mediatico- giudiziario che tanti danni ha procurato all’amministrazione della giustizia e allo svolgimento del confronto politico da cui non può prescindere una democrazia degna di questo nome. Se questa è la sua convinzione, debbo evidentemente prenderne atto e rispettarla. E augurarmi, per come la penso, ch’egli si imbatta nella funzione di consigliere superiore della magistratura in qualche caso che gli faccia cambiare idea e vedere meglio la realtà.
Qualcosa però non deve avere obiettivamente funzionato né funziona se lo stesso Morosini riconosce la necessità di «un supplemento di attenzione sulla segretezza degli atti da parte della magistratura, con sanzioni - ha scritto al direttore del Dubbio - per chi non rispetta le regole». Sanzioni di cui giustamente Piero Sansonetti ha detto di non ricordarne comminate molte, o nessuna, quando sono scoppiati casi concreti di disattenzione, diciamo così, sulla segretezza delle indagini e gli organi preposti hanno svolto i loro accertamenti. Curiosamente la colpa, a quanto pare, è solo dei giornalisti che scrivono e fanno, magari, uso cattivo delle informazioni di cui dispongono, o in cui sono casualmente, per carità, incorsi.
Il consigliere Morosini converrà che questa rappresentazione o solo immaginazione dei fatti è un po’ troppo ottimistica.
Questa occasione, chiamiamola così, che anche io avevo ritenuto di cogliere nell’intervista del consigliere superiore della magistratura, è stata dunque semplicemente un’occasione perduta, o equivocata. Non mi resta che aspettarne fiduciosamente un’altra.
Nel frattempo voglio però osservare che in un Paese affollato di reati, a prevedere o stabilire i quali provvede qualche volta la stessa magistratura con sentenze, quando non si trovano chiaramente indicati nei codici con tanto di articoli, com’è avvenuto e avviene con l’ormai famoso concorso esterno in associazione mafiosa e come temo che stia avvenendo a Napoli, a carico del governatore della Campania Vincenzo De Luca, con l’istigazione al voto di scambio, non bastando evidentemente il voto di scambio in sé anche l’uso degli avvisi di garanzia e relative indagini ai fini della lotta politica dovrebbe essere considerato e diventare un reato. Sarebbe un reato colposo, senza dolo, per dirla alla maniera del codice etico appena adottato da Beppe Grillo per i cosiddetti portavoce del suo movimento 5 stelle, visto che Morosini è convinto che non vi siano mai stati o non vi siano pubblici ministeri partecipi deliberatamente del circuito mediatico- giudiziario da tutti deplorato a voce. Ma sarebbe pur sempre un reato, di cui non so se per comodità o convenzione dobbiamo assegnare il dolo - ripeto- solo ai giornalisti e ai politici.
Va bene, diciamo così. Anzi, va male.