“I sindaci non possono essere il capro espiatorio di tutto”. Giustissimo, onorevole Chiara Appendino. Siamo al suo fianco nel protestare contro una condanna, secondo noi ingiusta, che l’ha colpita per una sorta di responsabilità oggettiva, nella sua veste di ex sindaco di Torino. Confermata in questi giorni dalla Cassazione, che pure chiede un nuovo appello per rideterminare in meglio la pena di un anno e mezzo.

Ma la responsabilità penale di Appendino è considerata “irrevocabile” dai giudici. Eppure non proprio in capo al primo cittadino andrebbe considerato l’impegno sull’ordine pubblico di una metropoli. E soprattutto la capacità di prevedere disordini. Ma è andata così, quando il 3 giugno del 2017 in piazza San Carlo a Torino, durante una calca di persone che assistevano dai grandi schermi alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, persero la vita due donne e rimasero ferite 1.600 persone. Un fatto gravissimo, mentre la sicurezza della piazza non era certo affidata direttamente al sindaco, che tra l’altro non era presente, cui però venne contestato il fatto di non aver previsto la pericolosità dell’evento.

Ma quello che colpisce, nelle parole dell’ex sindaco, è lo stato emotivo, comprensibile, tutto rivolto verso se stessa. Un grido di autocommiserazione che però la isola dal mondo, anche da quello in cui oggi lei vive, da un anno e mezzo, nella sua nuova veste di deputata. Perché se l’onorevole Appennino facesse lo sforzo di tradurre in politica il proprio grido di dolore, le basterebbe guardarsi intorno. In Parlamento, prima di tutto, per via di quella riforma che abolisce l’abuso d’ufficio, reato che riguarda e investe come una valanga soprattutto i sindaci. È vero che l’ex primo cittadino di Torino è stata condannata per altri reati, più gravi anche se colposi, come l’omicidio e le lesioni, oltre che il disastro. Ma il concetto è proprio quello che lei ha denunciato nel suo grido di dolore: i sindaci non possono

essere il capro espiatorio di tutto. Vogliamo fare il conto dei suoi ex colleghi che sono stati indagati, arrestati, sputtanati, espulsi di fatto dalla politica, e poi assolti? Mentre i suoi amici di partito gridavano nelle piazze e anche nelle aule parlamentari “crucifige cucifige”, e il suo giornale di riferimento, il Fatto Quotidiano, pubblicava una serie di intercettazioni private che apparivano “scandalose” perché carpite a tradimento, ma poi risultavano insignificanti agli occhi dei giudici quando assolvevano.

In questi giorni il Movimento Cinque Stelle sta discutendo, dopo la sberla elettorale che alle europee l’ha ridotto al 10%, un nuovo assetto politico. E i quotidiani vedono l’immagine di Appendino un po’ offuscata proprio dalla sentenza della Cassazione che ha di fatto reso definitiva la sua condanna. Non sarebbe un’occasione, per l’ex sindaco di Torino, per rivendicare la propria correttezza amministrativa, le proprie capacità e la propria onestà, titolo “cinquestelle” più di tutti gli altri, nonostante la condanna? Sarebbe una grande occasione. Non per operare dei distinguo, come del resto il leader, un po’ ammaccato, Giuseppe Conte, ha già tentato. Come se ci fosse processo e processo, e poi condanna e condanna.

Nel mondo grillino è così. Fin dai primi vagiti del movimento, e dai primi arrivi in Parlamento, il grido di guerra è sempre stato contro “gli indagati”, a prescindere da qualsiasi differenza. Ma per invitare i propri colleghi ad aprire gli occhi. Per spiegare, prima di tutto, che quel che è capitato a lei, proprio perché è stata una brava amministratrice ed è al vertice del partito dell’onestà, può capitare ad altre brave persone e bravi amministratori. Provi a dialogare con qualcuno di quelli che hanno vissuto esperienze simili alla sua, soprattutto quelli che, al termine di una gogna sanguinosa subita anche dagli esponenti del suo partito, sono infine stati assolti. Lei non è diversa né migliore di loro, onorevole Appendino. Glielo garantiamo, perché con molti di loro abbiamo parlato, o addirittura li conoscevamo anche prima personalmente. Quando i suoi amici di partito gridavano loro che erano corrotti e noi sapevamo che non era così.

È una piccola grande strage, e non sarà superata solo con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio né con la difesa del ruolo del sindaco. Perché vicende analoghe sono state vissute da tanti presidenti di Regione, uno dei quali, quello della Liguria Giovanni Toti, è tuttora in ceppi domestici.

L’occasione per una svolta potrebbe essere quella di osservare da vicino la situazione politico- giudiziaria del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, uomo del Pd, quindi di area politica quanto meno a lei non avversa, onorevole Appendino. Dia un’occhiata alle carte, tanto sono su tutti i giornali, a partire da quello che supponiamo sia il suo preferito. Veda se, a occhio, c’è qualche possibilità che questo sindaco venga processato e poi condannato per voto di scambio mafioso. Si informi, approfondisca, prima di limitarsi a gridare “onestà onestà”. Colga questa occasione. Sollevi lo sguardo dal proprio ombelico e dalle proprie cicatrici che ancora bruciano, faccia un giro d’orizzonte, in Parlamento e nella commissione giustizia, anche se non è strettamente di sua competenza, e poi in giro per l’Italia.

Approfitti dell’occasione di essere all’opposizione. E si domandi se non sia sbagliato il processo di imitazione in salsa grillina da parte di quegli esponenti del centrodestra che hanno invocato, con successo, l’accesso agli atti dell’antimafia al Comune di Bari e oggi chiedono le dimissioni del sindaco Falcomatà. Le piace ancora questo stile grillino, onorevole Appendino? Ora che ha le ferite sul suo corpo, vede anche quelle degli altri? Faccia un gesto di sfida, alzi la testa. E invece del grido di dolore provi a lanciare quello della libertà. Sua e di tutti gli altri. Vedrà che poi si sentirà meglio, e non sarà sola.