Ne parla tra due virgole, come se non fosse il tema centrale, quando si parla di sindaci e di amministratori e delle loro responsabilità. Il reato di abuso d’ufficio per Chiara Appendino, già primo cittadino di Torino condannata in Cassazione per i fatti di piazza San Carlo del 2017 e ora deputato del Movimento cinque stelle, può restare al suo posto. Al massimo, concede l’onorevole, potrebbe bastare una revisione del testo Unico degli Enti Locali. Potrebbe bastare per che cosa? Solo per ovviare all’inconveniente capitato a lei, cioè essere condannata per omicidio colposo, lesioni e disastro per una sorta di responsabilità oggettiva che viene riconosciuta in capo ai sindaci per eventi pubblici piuttosto che per calamità naturali. Ma allungare lo sguardo oltre l’orizzonte, oltre quel pantano intriso di moralismo che impone sempre di giudicare gli altri e assolvere se stessi, quello no. Ed è un peccato che, vista la risposta data al mio articolo di solidarietà per una condanna ingiusta, Chiara Appendino non mostri di voler cogliere l’occasione prima di tutto con un gesto di solidarietà nei confronti dei tanti suoi ex colleghi che sono finiti nel famoso pantano pieno di ingiustizia, di gogna mediatica e di distruzione del percorso politico, prima di essere assolti in tempi colpevolmente tardivi. Solidarietà verso quei 4000 (meno 18 che sono stati condannati) che hanno subito la violenza di processi ingiusti sulla base di un reato, l’abuso d’ufficio, inconsistente nella sua ferocia.

Ma non è solo questione di solidarietà umana o politica. È anche la capacità di conoscere per deliberare, e non c’è bisogno di avere Einaudi come modello culturale. Ma un legislatore, quale Appendino oggi è, ha il dovere di essere prima di tutto un riformatore. E in quanto tale deve coltivare l’impegno a studiare, tutti i giorni e tutte le notti del suo mandato. E poi agire, con lo strumento che è nelle sue mani, la proposta di legge di riforma. Nel nostro codice penale, immaginiamo che la deputata Appendino lo sappia, esistono già gli strumenti, e sono molto più severi che nel resto d’Europa, per punire la corruzione, la concussione, il peculato, la malversazione e persino l’ineffabile traffico d’influenze. E ci sono anche provvedimenti amministrativi che si possono usare nei confronti dell’amministratore che mantenga comportamenti scorretti per esempio sull’assunzione di parenti o amici.

Ma in uno Stato di diritto, in un Paese che abbia a cuore i principi liberali di rispetto tra cittadini e tra cittadini e istituzioni, “…l’intervento giudiziario deve essere l’extrema ratio, non la norma, e la giustizia penale dovrebbe essere l’ultimo approdo, non la regola”. Sarebbe sufficiente ascoltare dall’archivio di Radio Radicale le parole non di un pericoloso sovversivo garantista berlusconiano, ma di Margherita Cassano, presidente della Corte di cassazione. Ma naturalmente per l’ormai folto popolo dei “sono garantista però”, cui mi pare la deputata Appendino si sia iscritta, c’è la risposta pronta, ed è quella del tribunale del popolo. Quello che giudica i comportamenti, la ciocca di capelli che sfugge al dominio del velo. Ah, l’”opportunità politica”! Ormai nel partito Frecciarossa che ha sostituito quello della Ztl (a Milano Area C) e la gauche caviar, nessuno osa più avventarsi sull’avversario di partito in quanto indagato o arrestato, ma solo per l’opportunità. Salvo attingere a piene mani dalle veline del pubblico ministero per giudicare, trinciare ed emettere sentenze. Chissà sulla base di quale opportunità la deputata Appendino ha dedotto che il caso Toti sia frutto di “commistione tra affari e politica”. Per restare nel perimetro delle Regioni, le dicono niente i casi Fontana, Oliverio, Pittella, Marini? Per poter giocare ad armi pari, bisognerebbe che almeno i magistrati che hanno distrutto la vita e il percorso politico di tanti amministratori per bene e capaci fossero a loro volta in qualche modo sanzionati. Ma non è così. L’ex sindaco Appendino dice di essersi difesa “nel” processo e non “dal” processo. Se mi permette, questa è una grande sciocchezza. Perché, come dissero grandi giuristi che andrebbero almeno ripassati, il processo è già in se stesso una forma di violenza, da cui è giusto difendersi. Se per esempio mi capitasse di scoprire che un pm sta nascondendo le prove a mio favore, come è successo in un caso famoso, io mi difenderei “dal” prima ancora che “nel” processo. Questa è la vera questione morale, cara Appendino. Il principio dell’habeas corpus. Lei ha fatto buoni studi e dovrebbe conoscerlo.