Era passato un elicotterista, e poi i cacciatori con i setter, e gli uomini della protezione civile e tanti tanti volontari. In quei giorni, sul campo di Chignolo d’Isola, dove il corpo di Yara Gambirasio sarà ritrovata a due mesi dalla sua scomparsa, c’era una vera folla. E nessuno l’ha vista tra la sterpaglia. Era inverno e c’era poco verde che potesse nascondere. E tutti questi testimoni giurano che lì, nei giorni successivi a quel maledetto 26 novembre dl 2010 in cui la ragazzina tredicenne sparì, lei, o che quel che rimase di lei, non c’era.

E’ uno dei punti oscuri, o forse chiari, di una vicenda, che è stata inchiesta e poi processo uno e due e tre, e oggi anche bellissimo e struggente fino a farti piangere, docufilm di Gianluca Neri su Netflix, che tiene ancora prigioniero un muratore che grida la propria innocenza. Massimo Bossetti, ergastolano e assassino, e Yara Gambirasio, atleta di ginnastica ritmica e vittima. Un uomo di 44 anni e una bambina di 13, così acerba da dimostrarne ancora meno.

Così il secondo punto “oscuro”, oppure chiaro, è il rapporto tra i due. O il non rapporto. L’adolescente è timida, tutta concentrata sulla palestra e i campionati di ritmica, obbedisce ai genitori, sul cellulare ha memorizzato solo sei numeri, tra cui non c’è quello dell’”orco”. Perché non può esserci. Quella sera lei è andata in palestra a portare uno stereo per la gara del giorno successivo, in molti l’hanno vista, nessuno l’ha notata quando è uscita. “Se” è mai uscita. Testimonianze reticenti, telefonate cancellate, “ispezione” affrettata e superficiale del centro sportivo, fanno da contorno ai tanti dubbi. Pioveva forte, quella sera. E il furgone del muratore di Mapello è passato di lì.

Né l’inchiesta né i processi hanno saputo spiegare, eppure sarebbe stato importante, prima di decidere “oltre ogni ragionevole dubbio”, se ci sia stato davvero l’incontro tra i due. Yara non avrebbe mai accettato il passaggio da uno sconosciuto, lo dicono tutti quelli che la conoscevano e anche i giudici. Quindi, se l’incontro c’è stato, resta solo l’ipotesi che Bossetti abbia fermato il furgone, sia sceso, abbia afferrato la ragazza, senza che lei strillasse, si divincolasse e attirasse l’attenzione di qualcuno, poi l’avrebbe caricata e tenuta ferma con una sola mano mentre con l’altra guidava.

Poi? Poi sarebbe andato nel campo di Chignolo, sempre con la sua prigioniera a bordo. E lì avrebbe spogliato la ragazza, poi le avrebbe rigato il corpo con un temperino, avrebbe fatto qualche avance sessuale, ma senza violentarla, infine l’avrebbe rivestita e poi abbandonata nel campo dopo averla tramortita con un colpo alla testa. Ora, c’è qualcuno che può credere a questa ricostruzione? Ebbene, sia i pubblici ministeri che i giudici, togati e popolari, di due diverse corti, e anche la cassazione hanno chiuso gli occhi e hanno emesso verdetti senza porsi il problema. Hanno detto “c’è il dna”, e questo ci basta.

Ma ricordiamo come è stato ben bene costruito il personaggio dell’assassino. Da quel titolo che spiegava a occhi chiusi “Ecco perché Bossetti è colpevole”, si è cominciato a parlare di lui come di uno vanesio e abbronzato, e i titolari dei centri estetici di Curno, Mapello e Brembate hanno cominciato a contendersi la sua presenza. E poi, il giorno della sparizione di Yara, lui era chiuso in un silenzio anomalo, si è detto, e poi c’è un vuoto di giorni nei messaggi tra lui e la moglie. Molto sospetto, magari lui amava un’altra.

E che dire del momento dell’arresto, quando è rimasto “muto e immobile”, oppure no, invece ha tentato di scappare? Lo ricordiamo, perché sono immagini indimenticabili, che abbiamo visto e rivisto. Un omino magro in calzoncini corti, con gli occhi abbagliati che pareva un animaletto spaventato per quell’aggressione improvvisa e violenta dei carabinieri che lo braccavano sul cantiere urlando “prendetelo prendetelo, scappa scappa”, come indemoniati. Una scena che ricordava, e l ’effetto pareva voluto, certi arresti di boss mafiosi in Sicilia.

Una pagina della giustizia e della comunicazione che può solo far provare vergogna. Insieme a quell’altra, confessata al processo dal colonnello Giampietro Lago del Ris di Parma, di aver costruito, per esigenze giornalistiche, un filmato che mostrava il passaggio del furgone di Bossetti vicino alla palestra da cui era sparita Yara, 16 volte invece che una sola, che era la realtà. Nessun turbamento pare abbiano suscitato le parole dell’ufficiale. Così come tutto il balletto che per anni ha ruotato intorno all’auto e al furgone di Bossettti, su cui il dna di Yara non è mai stato trovato, piuttosto che le voci del’inesistentel materiale pedopornografico nel suo computer.

E intanto la vita di un uomo, insieme a quella di due famiglie, veniva distrutta. Ci sono anche momenti di mancanza di sensibilità che colpiscono, soprattutto quando li risenti mentre guardi quello che sembra un film e invece è tragedia allo stato puro. Era necessario che la pm di Bergamo nel corso di un interrogatorio comunicasse a un uomo in ceppi che la moglie lo tradiva? E che lo facesse con tono beffardo? Che cosa si aspettava, che il muratore affranto dicesse che a quel punto tanto valeva confessare l’omicidio di Yara Gambirasio?

Se questo era l’intento, la delusione deve esser stata grande, dal momento che Bossetti dal carcere di Bollate sta lottando ancora oggi per dimostrare la propria innocenza. Si può credergli oppure no, ma non saranno piccoli trucchi a cambiare la sua parola. C’è un punto su cui anche la pm Ruggeri ha vacillato, il movente del rapimento e del delitto. Perché non c’è stata violenza sessuale né traccia di amplesso di alcun tipo tra i due. Eppure resta il fatto che sia sugli slip che sui leggins della ragazzina c’è il dna che viene attribuito a Bossetti.

E qui si aprono atri due problemi che non sono stati tenuti in nessun conto né dagli inquirenti né dai giudici nei tre gradi di giudizio. Il primo è logico: accertare l’esistenza di contatto tra due persone, equivale automaticamente a dimostrare che una sia l’assassino dell’altra? Non è stato sufficiente nel caso di Raniero Busco, assolto dall’omicidio di Simonetta Cesaroni. E del resto la cassazione nel 2004 fu esplicita: la presenza di dna non è sufficiente in sé, spetta al giudice stabilire “al di là di ogni ragionevole dubbio” se la prova dimostri il fatto.

L’altro dubbio riguarda proprio la presenza di tracce solo parziali del dna di Bossetti. L’aveva ben spiegato, in un convegno che si era tenuto a Milano in occasione dell’arresto di Bossetti, il professor Peter Gill, titolare della cattedra di genetica forense a Oslo. Il dna, aveva spiegato, è come un uovo, che non è completo se non ci sono le due componenti, il tuorlo e l’albume. Sugli indumenti di Yara è stato trovato solo il dna nucleare, cioè la parte maschile, di Bossetti. Manca però il mitocondriale del muratore, mentre c’è quello di un’altra persona non identificata.

Il quadro accusatorio anche sulla “prova regina” appare dunque non proprio granitico, nonostante la condanna definitiva all’ergastolo. A questo andrebbe aggiunto il fatto che la difesa degli instancabili avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini ha chiesto il riesame del materiale genetico fin dai tempi delle indagini, ricevendo riposte sempre negative. Si è detto e ridetto che materiale disponibile non ce ne era più. Salvo poi scoprire che all’ospedale S. Raffaele il professor Giorgio Casari, il custode dei reperti, disponeva di 54 campioni. Ma quando si sarebbe potuto arrivare ad analizzarli, ecco che la pm Ruggeri si era assunta la responsabilità di far spostare tutto il materiale da un luogo in cui era custodito alla temperatura di meno 80 gradi, a un luogo a temperatura ambiente, benché avvertita del pericolo di distruzione del materiale. Il che ha avuto come conseguenza un’indagine nei confronti della pm presso la procura di Venezia.