«Alla luce di quanto precede e, in particolare, della mancanza di prove o di un ragionevole sospetto di coinvolgimento nella questione oggetto di indagine, idoneo a giustificare la misura, del suo contenuto ampio e indeterminato e dell’assenza di sufficienti garanzie di controbilanciamento, in particolare di un controllo indipendente e imparziale della misura contestata, la Corte conclude che la misura contestata non era “prevista dalla legge” né “necessaria in una società democratica”». È una batosta clamorosa quella inflitta dalla Cedu all’Italia. Ad essere condannata è stata la Commissione parlamentare antimafia, colpevole di aver perquisito e sequestrato gli elenchi del Grande oriente d’Italia in Calabria e Sicilia, portando via con sé i nomi di 6mila massoni, contenuti in 39 faldoni.

Un sequestro eseguito a marzo 2017 dopo un lungo braccio di ferro tra l’allora presidente Rosy Bindi e il Gran maestro Stefano Bisi, che si era rifiutato di consegnare tali elenchi spontaneamente. Gli elenchi, aveva detto Bindi, andavano forniti. Perché gli iscritti sono vincolati alla «riservatezza» e non alla «segretezza». L’allora presidente aveva chiesto, in via prioritaria, i nomi degli iscritti delle logge di Sicilia e Calabria. Perché, questo il messaggio tra le righe, è lì che il rischio che la massoneria devii verso la criminalità è più alto.

Poca importa se la stessa Commissione ha più volte certificato una presenza massiccia della criminalità organizzata nelle altre regioni d’Italia. A fornire le basi per quella richiesta le inchieste giudiziarie di quel periodo, delle quali la Commissione ha preso atto ascoltando i magistrati che le hanno condotte. La contestazione di Bisi era semplice: da un lato non risultava che alcun iscritto fosse indagato dalla magistratura, dall’altro ciò avrebbe costituito una massiccia violazione della normativa in materia di protezione dei dati personali degli iscritti. Nonostante ciò, Bindi diede ordine al nucleo della Guardia di Finanza specializzato in contrasto alla “criminalità organizzata” (lo Scico), di perquisire da cima a fondo la sede del Grande Oriente d’Italia a Roma. Il Goi consegnò subito gli elenchi, ma la perquisizione dandò avanti per 14 ore, con l’identificazione di tutti gli impiegati e l’appartamento di Bisi messo a soqquadro, compreso il capanno degli attrezzi in giardino. Nonostante ciò, nelle 500 pagine di relazione finale della Commissione non apparve nessun riferimento a iscritti collusi o indagati. Ciò nonostante il sequestro coprisse 27 anni di attività.

A ciò si aggiunse la beffa: a fine della legislatura, i 39 faldoni di documenti sequestrati rimasero a Palazzo San Macuto. Il Goi, dopo aver tentato la via  della giustizia nazionale, si è dunque rivolta alla Corte di Strasburgo, tramite il professor Vincenzo Zeno-Zencovich, che ha evidenziato non solo la natura intimidatoria della perquisizione, ma anche l’assenza di qualsiasi rimedio interno, data l’immunità della Commissione parlamentare. Rispetto alla quale nemmeno il Garante Privacy poteva fare nulla.

Nelle 40 pagine di sentenza depositate, la Corte di Strasburgo ha evidenziato che l’azione delle autorità italiane, pur avendo una base legale - Palazzo San Macuto può esercitare gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria -, non soddisfaceva i requisiti di necessità e proporzionalità previsti dalla Convenzione, violando l’articolo 8 della stessa. In particolare, l’ordinanza di perquisizione era troppo ampia, non sussistendo «elementi che avrebbero potuto suffragare un ragionevole sospetto del coinvolgimento della Associazione nei fatti oggetto di indagine».

Tra le criticità evidenziate dalla Cedu anche l’assenza di «una forma di controllo ex ante o ex post da parte di un’autorità indipendente quale garanzia essenziale contro interferenze arbitrarie dei pubblici poteri». Interferenza permanente in quanto, si legge nella sentenza, la documentazione sequestrata non è stata distrutta al termine della attività della Commissione. «Lo storico risultato oggi conseguito innanzi la Cedu» contribuirà, «come più volte accaduto nella storia del Paese, a preservare e far progredire la democrazia, la giustizia e la legalità - ha commentato Bisi -. Non si può certo gioire per la condanna dell’Italia, dichiarata ancora una volta gravemente responsabile di azioni in danno del Goi Palazzo Giustiniani, ma deve necessariamente trarsi insegnamento per il futuro. Il Goi prosegue, infatti, la sua azione giudiziaria nei confronti dello Stato per la restituzione di Palazzo Giustiniani».