Guai a criticare la magistratura inquirente, anche di fronte alla minaccia di essere indagati per aver stigmatizzato il comportamento di una teste nel corso dell’udienza. Una “libertà” concessa dal codice penale, ma che nel processo “Angeli e Demoni” rischia di diventare un’arma contro i difensori, ai quali più volte, nel corso del dibattimento, è stata ventilata la possibilità di finire sotto indagine per la propria postura processuale.

Si accende sempre di più il clima tra magistratura e avvocatura, mentre imperversa la battaglia sulla separazione delle carriere, che vede le due parti sui lati opposti delle barricate. Mentre da un lato il sindacato delle toghe porta avanti la propria battaglia contro le scelte della politica, criticando la riforma, dall’altro lato nel mirino ci finisce la Camera penale di Reggio Emilia, colpevole di difendere due avvocati che la pm del processo “Angeli e Demoni” vorrebbe far finire sotto indagine o sotto procedimento disciplinare.

Al centro della polemica gli interventi dei legali in aula, tecnicamente “protetti” dall'articolo 598 del codice penale, ma che la pm vorrebbe sanzionare, in virtù della lesione della reputazione dei soggetti coinvolti. Oggetto della critica la consulente Rita Rossi (ascoltata poi nelle udienze successive), che la scorsa settimana ha inviato alla pm - che poi l’ha esibito in aula - un certificato di malattia, adducendo legittimo impedimento a presenziare all’udienza del 10 giugno. Un certificato monco, secondo gli avvocati Nicola Canestrini (difensore di Francesco Monopoli) e Luca Bauccio (difensore di Claudio Foti in abbreviato e di Nadia Bolognini in ordinario), che hanno chiesto un accertamento del medico fiscale, richiesta respinta dalla Corte.

«Il certificato medico non indica quale sarebbe la malattia e siccome chi comunica un proprio impedimento deve mettere nelle condizioni di una verifica e di un accertamento e di una valutazione, senza indicare la malattia non si riesce a valutare nulla», ha sottolineato Bauccio, che ha inoltre annunciato eventuali iniziative nei confronti del medico «che ha diagnosticato una malattia senza indicare la malattia: credo che sia una moda molto in voga dalle zone della dottoressa Rossi, diagnosticare malattie senza diagnosi». Il riferimento è alla consulenza fornita dalla psicologa nel troncone relativo a Foti, condannato in primo grado proprio sulla base della consulenza di Rossi, smontata in appello dai giudici, che l’avevano definita priva di fondamento scientifico. Una linea, quest’ultima, confermata dall’assoluzione in via definitiva dello psicoterapeuta.

La frase, però, non è piaciuta alla pm Salvi, che dopo aver sottolineato, riferendosi a Bauccio, che «va molto di moda che lei parli molto», ha dichiarato di ritenere «gravemente offensiva della reputazione della dottoressa» la frase pronunciata dal legale, chiedendo pertanto «la trasmissione degli atti». Bauccio ha però evidenziato che la diffamazione è «procedibile a querela di parte», cosa necessariamente nota alla pm, motivo per cui ha dichiarato di ravvisare nella richiesta dell’accusa, «oltre che una gravissima scorrettezza deontologica, della quale mi farò carico di segnalare agli organi competenti, anche un atto di violenza privata, perché è una intimidazione».

Parole rimarcate da Canestrini, secondo cui «il fatto che la procura chieda, per un intervento difensivo, la trasmissione degli atti, senza neppure avere notizia di una eventuale querela, costituisce una minaccia alla libertà difensiva - ha sottolineato -. L’iniziativa va nel senso di condizionare la libertà del difensore, che quando rappresenta, a torto o a ragione, le proprie ragioni all’autorità giudiziaria, deve godere, per dettato costituzionale, della massima libertà. Credo che sia il modo sbagliato quello di utilizzare un proprio potere istituzionale per cercare di limitare le iniziative difensive».

La controreplica della pm non si è fatta attendere, prospettando una segnalazione anche a carico di Canestrini: «Dal punto di vista deontologico, a mio avviso, ci sono un po’ di profili anche per quanto riguarda lei», ha affermato Salvi, prima che la presidente Sarah Iusto chiudesse l’udienza verbalizzando tutto il diverbio.

Sabato scorso è intervenuta la Camera penale di Reggio Emilia, presieduta da Luigi Scarcella: «In uno stato democratico e liberale l’avvocato non è un ostacolo alla giustizia - si legge nella nota - e ogni attacco alla funzione difensiva si traduce in un attacco alla stessa idea di libertà». Secondo i penalisti, l’atteggiamento di Salvi rappresenterebbe «un’azione in grado di compromettere, condizionare, mettere in pericolo, la libertà del difensore di esercitare - come meglio ritiene - il diritto di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 24». Un atteggiamento «non in linea con il ruolo di un pubblico ministero “organo di giustizia”, scevro da intenti arbitrariamente inquisitori» e che «altera quello che dovrebbe essere l’intangibile equilibrio tra accusa e difesa nell’esercizio del giusto processo».

E lunedì è arrivata la replica della giunta esecutiva sezionale dell’Emilia-Romagna dell’Associazione nazionale magistrati: «I processi si fanno in tribunale, tra parti davanti al giudice – ha affermato il sindacato delle toghe -. È davvero inusitata la decisione delle Camere penali di Reggio Emilia di intervenire, a processo in corso, su un fatto del processo e sulla dialettica che necessariamente lo percorre. Non è accettabile che dall’esterno si cerchi di trasformare il dibattimento in un processo al pubblico ministero, Valentina Salvi, con un comunicato che la elegge a bersaglio. Interveniamo esclusivamente per chiedere rispetto per il processo e per la corretta e serena dialettica processuale che sola potrà consentire l’accertamento dei fatti e il giusto processo». Un’intrusione mai stigmatizzata, però, quando il processo mediatico inquinava le indagini violando la presunzione di innocenza con la circolazione di atti ancora coperti da segreto.