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«È una questione politica, niente di più». È tranchant il giudizio di Oliviero Mazza, legale, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi, sul tentativo della procura di Reggio Emilia di portare l’abrogazione dell’abuso d’ufficio davanti alla Corte costituzionale. Un tentativo che la pm Valentina Salvi, titolare dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni”, ha fatto con una istanza che rappresenta il primo tentativo di riportare in vita il reato, abrogato ad agosto scorso. Il collegio si pronuncerà ad ottobre. Ma intanto, ieri, è stato il giorno delle memorie delle difese, con l’intervento del professore Vittorio Manes, difensore, insieme a Giovanni Tarquini, dell’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ascoltato in aula anche dal procuratore Gaetano Paci. Manes ha parlato di «funambolismo giuridico» : la procura, infatti, «chiede alla Corte costituzionale di fare qualcosa che la Corte non può fare» e di scavalcare persino la legge istitutiva della stessa Consulta, che non consente di sindacare il merito della singola scelta politica.
L’abolizione dell’abuso d’ufficio, infatti, è frutto di una «discrezionalità politica», che nessuno può chiedere di giudicare, almeno sulla base del modello che i costituenti si sono dati. Rispetto alla richiesta di un intervento ablativo che avrebbe l’effetto di far “rivivere” una norma penale anteriore sfavorevole, la Consulta stessa ha sottolineato che «l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Costituzione»; le scelte di politica criminale spettano al legislatore e «non esistendo imperativi costituzionali di ricorso alla sanzione penale, resta precluso alla Corte di sostituirsi al legislatore, che resta l’unico referente legittimato a compiere scelte ( politiche) di criminalizzazione».
Secondo Manes, l’intento della pm sarebbe quello «di proporre il proprio, personale e soggettivo progetto di politica criminale al posto di quello del legislatore, evocando fattispecie comparative del tutto eterogenee, attraverso un esperimento di bricolage giuridico». Così come ricordato dalla Consulta, non c’è un obbligo costituzionale di incriminazione. «Laddove il privato subisca un danno derivante dalla condotta del pubblico ufficiale ( come ipotizzato dal pm) potrà (continuare ad) azionare le ordinarie azioni civilistiche ex artt. 2043 o 2049 c. c., ovvero contrastare misure amministrative avanti al Tar: il cittadino, cioè, potrà comunque far valere i propri diritti e interessi, seppure in sedi diverse da quella penale. Ciò non significa che venga sottratto o impedito il diritto di difesa - sottolinea Manes -. L’eliminazione della rilevanza penale di un fatto illecito non elide la tutela che l’ordinamento attribuisce al danneggiato, il quale può continuare a far valere i medesimi diritti».
La contestazione più forte riguarda il presunto contrasto con gli obblighi sovranazionali e, dunque, con l’articolo 117. Tuttavia, afferma Manes, nessuna norma sovranazionale o eurounitaria impone l’obbligo di incriminare tale condotta. Le convenzioni internazionali, come quella di Merida, richiedono solo misure per la trasparenza e la prevenzione della corruzione, senza obblighi penali specifici. Inoltre, la nuova norma sul peculato per distrazione copre eventuali vuoti lasciati dall'abrogazione, rispettando i requisiti europei per la protezione degli interessi finanziari. Inoltre, l’abuso d’ufficio era già limitato nella sua applicazione prima dell’abrogazione.
Infine, la nuova norma introdotta al posto dell’abuso d’ufficio - il peculato per distrazione - colma quel possibile vuoto di tutela, rispettando i requisiti imposti dall’Ue per la protezione degli interessi finanziari. Dal canto suo, Mazza ha sottolineato che la reviviscenza dell’abuso d’ufficio è già stata esclusa dalla Corte costituzione (sent. cost. n. 8 del 2022). La questione sarebbe dunque irrilevante: anche a voler ipotizzare un accoglimento della stessa, «la giurisprudenza costituzionale è comunque
orientata ad escludere gli effetti sul processo in corso. Se invierete gli atti alla Corte lo farete per una questione teorica. E noi dovremmo rinviare la definizione di questo processo per una questione teorica?». Da qui la richiesta di assolvere gli imputati perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, «con la preghiera di non aggiungere la parola “più”, perché non serve».
Le difese delle due madri affidatarie e dell’ex sindaco di Montecchio Paolo Colli - gli avvocati Andrea Stefani e Francesco Paolo Colliva - hanno comunque chiesto una pronuncia di assoluzione nel merito, «per dimostrare l’insussistenza del fatto contestato». Una questione legata a «ragioni di riparazioni della dignità di queste persone», per evitare «coni d’ombra», ma anche per poter accedere al rimborso delle spese legali. I difensori hanno evidenziato l’esistenza, agli atti, della prova della mancata partecipazione concorsuale al reato. Motivo che consentirebbe al collegio di pronunciarsi anche in merito all’innocenza degli imputati proprio in relazione all’abuso d’ufficio.
In aula, ieri, è tornata Valentina Muraca, l’assistente sociale tra i principali testi dell’accusa. Muraca ha ribadito di non essere mai stata costretta a scrivere il falso nelle relazioni, circostanza, invece, contestata dalla procura. La teste ha anche dichiarato, dopo le domande dell’avvocato Cinzia Bernini - difensore, insieme a Elisabetta Strumia, dell’assistente sociale Annalisa Scalabrini -, che la relazione sul caso che ha dato il via alle indagini «non era falsa». Affermazione che, di fatto, piccona l’impianto accusatorio: sono i capi di imputazione 19 e 20 a parlare della falsità di quella relazione, determinata, secondo la pm, dalle indebite pressioni con le quali Anghinolfi avrebbe costretto Muraca «a redigere in poche ore la relazione» sulla situazione familiare della bambina.
Ma i messaggi scambiati da Muraca con Scalabrini fanno emergere una valutazione negativa da parte della teste sulla capacità della famiglia di accudire la bambina e della necessità di intervenire subito. Incalzata da Nicola Canestrini, difensore dell’assistente sociale Francesco Monopoli, ha ribaltato una delle dichiarazioni rilasciate nell’udienza precedente, quando aveva dichiarato che Monopoli avrebbe “preparato” un minore prima dell’incidente probatorio. Muraca ha affermato infatti che Monopoli non avrebbe mai detto nulla, ma di aver assunto un «atteggiamento» che glielo aveva fatto pensare. Altra questione emersa in udienza la posizione della presidente del Tribunale Cristina Beretti.
Nel corso della scorsa udienza, infatti, Muraca aveva affermato che le era stato riferito da Monopoli della protezione fornita da Beretti alla presunta setta di pedofili. In sede di sommarie informazioni, però, la teste non aveva saputo indicare il nome della toga che avrebbe “coperto” i pedofili: era stata la pm Salvi a indicare i nomi di due magistrati, chiedendo se si potesse trattare di uno di loro.
Nell’udienza di ieri, Muraca ha affermato di non ricordare scetticismo nei confronti di questi magistrati, ma «sconforto» rispetto all’esito di uno dei casi finiti a processo, per via dell’archiviazione delle accuse. In realtà, però, era stata proprio Beretti a condannare la madre del caso “zero”, quella della ragazzina che veniva fatta prostituire, un caso che stava molto a cuore ai Servizi. Al termine dell’udienza, Muraca ha chiarito che era impossibile che il Servizio pensasse che Beretti fosse a capo della setta.