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IMAGOECONOMICA
Vite stravolte. Professionalmente e umanamente. Gli imputati del processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza hanno preso la parola raccontando la loro versione dei fatti. Una versione completamente diversa da quella in questi anni raccontata dai giornali e dalle tv, che hanno parlato di un vero e proprio mercato dei bambini da dare in affido.
Tra gli imputati più bersagliati, la coppia di donne affidatarie che ha preso in carico la piccola K., la bambina che aveva chiamato i carabinieri perché lasciata da sola dai genitori. Le due donne - difese da Andrea Stefani e Valentina Oleari Cappuccio - hanno raccontato in aula il rapporto con la bambina, arrivata da loro con vissuti difficili e paure profonde, ma anche il loro percorso di affido, durante il quale, nonostante le difficoltà, hanno cercato di darle stabilità e amore.
«Lo scoppio dell’inchiesta, il termine dell’affido sono stati momenti terribilmente pesanti per me a livello emotivo, personale e sociale - ha raccontato D. B. -. Mi sono sentita aggredita in tutti i modi e ingiustamente, in più venivo dipinta come un mostro e una psicotica. Per un periodo di tempo non sono riuscita ad uscire di casa per paura che qualcuno potesse aggredirmi. Le notizie che erano state divulgate hanno distrutto la mia reputazione, ma anche tutto quello che avevo fatto e costruito fino a quel momento. Gli stralci delle intercettazioni, trasmessi per radio, televisione e pubblicati ovunque in modo decontestualizzato e senza spiegazioni, avevano avuto l’effetto di raccontare in modo sbagliato e falso gli anni che avevamo trascorso con K.. Anni di amore, attenzione e cura costanti, spazzati via da una gogna mediatica che si muoveva alla caccia di mostri e senza alcun rispetto della verità».
La donna ha spiegato che il suo intento era «aiutare». K. le era subito apparsa come una bambina «curiosa, intelligente, ma anche triste, arrabbiata, diffidente e decisamente affamata», diffidenza di K. si manifestava spesso in comportamenti oppositivi e nella costante richiesta di conferme sull’essere amata. Dopo cinque settimane, la bambina venne affidata ad altre famiglie, ma poi tornò con loro. Le due donne fecero del loro meglio per accoglierla, ma la sua diffidenza rimase, portandola ad agitarsi anche per piccole sorprese, temendo minacce: «Aveva paura che le si volesse fare del male, perché, aveva poi raccontato, la sua mamma una volta l'aveva inseguita con un coltello». Aveva anche paure irrazionali: «Ci aveva spiegato che aveva paura di essere rapita».
La bambina aveva «raccontato che spesso rimaneva a casa da sola e che con il pc o il cellulare guardava dei video per adulti». Nonostante le diverse difficoltà, «teneva a noi e ci voleva bene. Eravamo per lei un punto di riferimento, chiedeva aiuto e con il tempo, aumentata la fiducia, con noi si sentiva al sicuro». Dopo gli incontri protetti con i genitori «era sempre molto nervosa. Ci aveva raccontato che prima della separazione la mamma non le faceva più da mangiare perché il papà non le dava più soldi. Il papà le aveva detto di andare a mangiare da sola nella pizzeria vicino a casa, lui avrebbe poi pagato il conto». K. ha avuto i primi episodi di epilessia nel 2017, diagnosticata, però, solo ad ottobre di quell’anno, una forma notturna destinata probabilmente a scomparire con la crescita.
Durante il ricovero, i genitori di K. si presentarono senza autorizzazione, creando un clima di tensione che ha molto spaventato la bambina. In seguito, K. scoprì che il padre le aveva mentito riguardo al permesso per quella visita e gli scrisse una lettera molto amareggiata. A causa di questi episodi, il tribunale ha sospeso la responsabilità genitoriale, impedendo ai genitori di vederla per un certo periodo.
D. B. ha parlato in aula anche dell’episodio ormai famoso, quello delle urla in macchina, quando arrabbiata aveva intimato alla bambina di scendere dall’auto. Uno sfogo arrivato in un periodo di forte stress, quando erano già iniziate le convocazioni dei Carabinieri e mentre il rapporto tra le due donne si andava deteriorando.
A scatenare la sua rabbia la frustrazione per il fatto che «K. mettesse costantemente in dubbio per delle sciocchezze l’affetto immenso che provavamo per lei - ha sottolineato -. In quell’occasione, ho reagito malissimo e mi sono comportata in modo inadeguato. Chiarisco che non ho fatto scendere K. dall’auto. Mi sono accorta del mio errore e le ho chiesto scusa, ribadendole che le volevo bene e provando a spiegare perché avevo reagito così». Un fatto isolato «che non si è ripetuto né prima né dopo». Dopo che K. è stata allontanata «mi è mancata moltissimo. Spesso mi sono chiesta se nel posto dove si trovava avesse con chi scherzare, se mangiasse abbastanza, se le raccontassero storie e stessero attenti che la notte dormisse - ha spiegato -. Anche adesso quando cucino qualcosa di buono mi viene in mente lei e mi chiedo se le potrebbe piacere».
Dopo D. B. anche l’altra affidataria, F. B., ha rilasciato dichiarazioni spontanee. La donna ha raccontato di aver scritto tantissime lettere in questi sei anni «nel silenzio del mio cuore, per proteggere le emozioni, i sentimenti e la realtà che abbiamo vissuto insieme e che è stata interpretata e anche violata in molti modi».
La donna ha raccontato delle prime cinque settimane, difficili, ma anche belle. E il distacco, prima del ritorno di K. nella loro vita. «Ho fatto del mio meglio - ha spiegato - e con tanto cuore e i risultati si sono visti il giorno in cui K. è partita. Non era più impaurita come quando era arrivata. Nonostante tutto, in quel tempo ci siamo scambiate un seme che ha attecchito nei nostri cuori e che negli anni successivi sarebbe diventato amore». Eppure, «in questi anni di processo, l’interpretazione ostile che è stata proposta del nostro stare insieme, ripetuta a martello per giustificarne un presunto lato oscuro, strumentale e maligno, ha sempre trascurato una componente fondamentale, non contemplata e nemmeno mai nominata: l’amore».
È stata «la passione» ad aver permesso loro di vivere ogni esperienza con intensità, trasformando le difficoltà in pensieri felici, storie e lezioni. E proprio la sera prima degli arresti, ha raccontato, ha capito che ce l’aveva fatta: K., solitamente molto rigida sul fatto di occupare un preciso posto a tavola, con serenità accettò di sedersi altrove e lasciare la sua sedia ad un’amica che l’aveva occupata per sbaglio, segno di una nuova sicurezza e tranquillità. F. B. ha rivolto un pensiero anche agli altri imputati, che hanno avuto un ruolo «servendo la cura e il diritto che K. aveva di crescere protetta».
La loro vita insieme è stata un’attesa costante: prima di notizie sul suo ritorno, poi per le decisioni sui decreti di affidamento, le terapie, gli incontri protetti e le udienze legali. Ogni momento della loro vita con K. era scandito da attese — per le sue visite mediche, le sedute di terapia, le decisioni dei giudici — e dalla paura di perderla. Attese accompagnate dalla domanda più dolorosa: quando sarebbe arrivato il momento di dirsi addio?
«Sono arrivati gli arresti e l’attesa è diventata forzata, punitiva, violenta, soprattutto per lei che era una bambina. Sono arrivate le aule di tribunale e i tempi sono diventati senza sentimenti. Sono arrivate nuove disposizioni per il suo destino e l’attesa è diventata una scelta - ha aggiunto -. Ho scelto di vivere aspettando e così continuo a fare. Come una mamma che c’è e resta. È stata interrotta la nostra vita insieme ma il nostro legame è diventato eterno. Se fosse un film di paura la sceneggiatura sarebbe perfetta, ma non è un film, è la nostra vita e la nostra vita era tutt’altro che maltrattamenti e falsità».
K. «è fra le cose più belle che mi siano capitate, sono grata alla vita per averla messa nelle mie braccia e alla sua mamma e al suo papà per averla messa al mondo». E nonostante le discriminazioni, le «accuse infondate», la perdita di lavoro e la cancellazione dei suoi successi professionali, mentre giornali e trasmissioni esponevano senza riguardo la vita privata di K., «mai, nemmeno per un istante in questi lunghissimi 2302 giorni ho pensato che sarebbe stato meglio non incontrarla. E tutto il dolore e il cambiamento che c’è stato e abbiamo vissuto non ha oscurato questa certezza, nemmeno per un attimo. K. mi ha donato il privilegio di essere la sua mamma di scorta, mi ha donato la compassione, la comprensione della fragilità e la donna che sono oggi non è più separabile dalla madre che sento di essere per lei. Una mamma in più che ci sarà sempre, se ne avrà bisogno».
In aula è intervenuta anche Federica Alfieri, psicologa, difesa dagli avvocati Mario Bonati e Federico Donelli. Che ha precisato come nel caso di A. O. sia stata coinvolta nell'indagine sociale, che comporta la raccolta di informazioni da scuole, medici e servizi sociali. Alfieri ha spiegato che «nelle conclusioni riportate nella relazione, le difficoltà e i fattori di rischio sono stati espressi in termini di condizionale, ritenuto necessario vista la natura preliminare delle informazioni a nostra disposizione». «La violenza assistita era difficile da riconoscere», ma sono emersi anche segnali di possibile trascuratezza dei bisogni evolutivi del minore.
Alfieri ha sottolineato che non le era mai stata prospettata una psicoterapia per il minore presso “Hansel e Gretel”, la onlus di Foti. «Sono consapevole che la decisione del Tribunale dei Minori, di allontanamento di A. da casa, abbia recato dolore alla famiglia - ha sottolineato - ma quanto da noi scritto non era idoneo a causare l’allontanamento». Il decreto conteneva «conclusioni diverse» dalle sue osservazioni, come già emerso in aula.
Durante l’udienza di questa mattina è intervenuta anche l’educatrice Maria Vittoria Masdea - difesa dall’avvocato Jenny Loforese - che, visibilmente provata, ha raccontato di come il peso emotivo dell’intera vicenda l’abbia segnata profondamente, lamentando il trattamento ricevuto durante le indagini e gli interrogatori. In aula anche l'educatrice Catia Guidetti, difesa da Francesca Guazzi e Federico De Belvis.
«Non riesco a comprendere i presupposti delle accuse che mi vengono mosse - ha dichiarato -, non riesco a comprenderne la logica e il metodo. Mi vengono rivolte accuse che prevedono che qualunque cosa io faccia sbagli, quindi avremmo omesso di riferire all’autorità giudiziaria delle convinzioni del Servizio sociale riguardanti gli abusi sessuali subiti da K., ma nello stesso tempo avremmo scritto nelle nostre relazioni circostanze con inequivocabile significato sessuale. Avremmo omesso di riferire “convinzioni prive di alcun riscontro oggettivo”, cosa che, se avessimo avuto qualche tipo di convinzione, e così non era, ci saremmo dovute tener per noi, non facendole in alcun modo entrare nelle nostre relazioni, che invece devono riportare solo quanto osservato».
Insomma, «siamo accusate di riferire e di tacere le cose contemporaneamente, perché si selezionano i materiali ad hoc, per sostenere un impianto accusatorio, anziché osservare gli anni di lavoro intercorsi su una situazione nel loro insieme». Guidetti ha anche criticato la consulenza di Elena Francia - consulente dell’accusa - che per sostenere la sua tesi avrebbe citato articoli scientifici che, in realtà, affermano l’opposto di ciò che la stessa consulente Elena Francia avrebbe scritto nella sua consulenza.
Durante l’udienza l’avvocato Oliviero Mazza - difensore dell’ex responsabile del Servizio sociale della Val d’Enza Federica Anghinolfi insieme a Rossella Ognibene - ha segnalato anomalie in un verbale attribuito alla sua assistita: la firma non corrisponderebbe infatti alle altre presenti nei documenti, motivo per cui ha chiesto una perizia calligrafica. Inoltre, Anghinolfi sarebbe stata sentita quando era già stata iscritta sul registro degli indagati senza un legale, cosa che renderebbe nullo quell’atto.