«Ma perché hanno accusato la F. e la D. di maltrattamento? Ma non mi maltrattavano…». Settembre 2019, Val d’Enza. Da tre mesi l’Italia è sconvolta da un turbinio di notizie sul presunto business degli affidi che fa tremare i polsi ai genitori ad ogni latitudine. Le tv mandano a rotazione continua spezzoni di audio ancora coperti da segreto istruttorio, ma è la stampa, bellezza. Va di moda, in particolare quello di due donne, madri affidatarie di Martina ( nome di fantasia), accusate tra le altre cose anche di averla maltrattata. Le voci in onda sono state registrate in auto e raccontano di una lite tra le donne e la bambina. È solo un frammento, un momento di tensione che esplode nella fatidica e ormai famosa frase “non ti voglio più”. Quelle donne, i cui volti vengono pubblicati ovunque accompagnati da frasi sessiste e omofobe, diventano il simbolo del male assoluto. E sulla loro pelle viene apposta l’etichetta “mostro”, come una sentenza senza appello. Ma è proprio Martina a settembre 2019, a parlare delle sue presunte aguzzine.

Lo fa a distanza di sicurezza, da una comunità, dove si trova dopo essere stata portata via dalla casa che fino a quel momento era stata la sua e dove era arrivata dopo aver chiamato i carabinieri chiedendo aiuto per essere stata lasciata sola da mamma e papà. La ragazzina è visibilmente stanca. Stanca, soprattutto, di essere sballottata da un luogo all’altro. Lo si capisce bene dal video che racchiude questa frase, semplice ma potentissima e finora ignorata. «L’unico problema è che non pensano a come possono stare le persone, ti prendono da casa, ti portano via ed è finita così.. cioè neanche senza pensare di fare la cosa con calma.. cioè io quando sono andata via dalla casa in affido mi hanno preso.. cioè sono arrivati senza dire niente mi hanno presa», si lamenta Martina. «Perché magari si vede che sanno delle cose che magari in quel momento lì non andavano bene…», replica la madre, «hanno deciso di portarti via e basta». «Ma perché hanno accusato la F. e la D. di maltrattamento? Ma non mi maltrattavano - dice Martina -. Comunque io ti giuro, io non riesco a capire chi è stato a dire una cosa del genere… Io voglio sapere, non si può sempre stare zitti».

In aula, lunedì, è stata proprio la madre di Martina a spiegare cosa fossero i maltrattamenti: ovvero il rifiuto delle affidatarie di lasciarle mangiare dei cioccolatini, “obbligandola” a una dieta sana, data l’abitudine della ragazzina a mangiare cibo spazzatura a qualsiasi ora. Ma non solo: l’altro esempio di maltrattamenti fatto in aula dalla madre riguarda gli «abbracci», troppo energici, a suo dire. E il fatto che le due donne avessero detto a Martina che la madre si prostituiva. Ma da dove proveniva questa informazione? Era stata la stessa madre a dirlo ai carabinieri, come confermato in aula dall’ex comandante Andrea Berci: «Ho problemi col marito - si leggeva in un’annotazione dei carabinieri letta in aula - e non contribuisce al fabbisogno familiare necessario per la crescita della figlia minorenne e mi sono dovuta prostituire per necessità di denaro e che il marito lo sa perfettamente».

Tali circostanze erano poi finito nelle varie Ctu, sempre sulla base delle dichiarazioni della donna. Non era, dunque, un’invenzione delle affidatarie. In aula, però, la donna ha cambiato versione: non si sarebbe mai prostituita, ha sottolineato, lo aveva detto solo per «fare arrabbiare» suo marito.

Lunedì la madre di Martina ha negato qualsiasi conflittualità in famiglia: il rapporto tra lei, la figlia e il marito è stato descritto come idilliaco. Una circostanza negata, però, dai documenti: anche dopo l’allontanamento, i nuovi servizi sociali che hanno preso in carico il caso - con addosso tutta la pressione generata dallo tsunami Bibbiano - hanno certificato un rapporto complicato tra marito e moglie, al punto da ipotizzare la necessità di allontanare nuovamente la minore. «In più di un’occasione - scriveva un’assistente sociale nel 2022 -, si è rischiato che la minore fosse consegnata ai servizi. È stato necessario richiamare, anche in maniera molto forte, la coppia genitoriale alle loro responsabilità parentali e restituire loro di come queste loro posizioni comportavano in maniera molto forte l’equilibrio psicoemotivo della minore.

I colloqui con la coppia genitoriale non sono assolutamente di facile gestione, il livello di conflittualità è ancora molto alto e ognuno, in maniera diversa, ha delle rivendicazioni nei confronti dell’altro e la minore viene, purtroppo, troppo spesso non vista, non considerata nelle evoluzioni psichiche (...). La minore, infatti, quasi inaspettatamente, ha chiesto di riprendere gli incontri con la psicologa (...) Si confermano al contempo delle fragilità genitoriali importanti che posizionano l’equilibrio della minore in modalità costantemente precaria». Tutti fatti di cui la madre, in aula, ha dichiarato di non avere memoria, fino a quando non è stata la difesa delle due donne a ricordarlo. Niente di grave, secondo la donna. Che ha perfino chiamato i carabinieri per sedare una lite con la figlia, che voleva scappare di casa. Stando ai documenti, Martina aveva infatti manifestato fortissime difficoltà nella relazione con la madre, tanto da non volerla incontrare nei mesi successivi all’esecuzione delle misure. E rifiutava di accettare l’idea che le affidatarie fossero state denunciate con un’ipotesi di maltrattamenti, come dimostrato da quell’audio, citato in aula, lunedì, dall’avvocato Jenny Loforese, che difende l’educatrice Maria Vittoria Masdea.

La ragazzina aveva pronunciato quella frase non solo davanti alla madre, ma anche davanti alla consulente dell’accusa, Elena Francia. Di fronte all’audio tirato fuori dalla difesa, la pm Valentina Salvi ha replicato ricordando una lettera scritta dalla minore, quando, scappando dalla comunità alla quale era stata affidata, aveva tentato di raggiungere i genitori di una delle affidatarie, ai quali era particolarmente legata. Una lettera in cui la ragazzina aveva puntato il dito contro le due donne, accusandole proprio per quei maltrattamenti contestati dalla procura. Ma era stato lo stesso maresciallo Giuseppe Milano, principale investigatore di questa inchiesta, a dire in aula - su domanda di Andrea Stefani, difensore delle affidatarie insieme a Valentina Oleari Cappuccio che quella lettera non aveva peso: la bambina l’aveva scritta dopo aver letto numerosi articoli, aveva spiegato Milano, e «questa lettera l’abbiamo acquisita e portata poi alle valutazioni della magistratura prendendo atto di quella sorta di contaminazione, quindi non gli abbiamo attribuito, almeno anche noi come investigatori, un grande valore». Una contaminazione che quel giorno di settembre 2019 non l’aveva ancora sfiorata.