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«Ci sono stati dei tentativi di condizionamento dei testimoni che dovevano entrare in questa aula, con articoli di stampa non propriamente fedeli rispetto alla realtà processuale, che venivano inviati ai testimoni prima che dovessero rendere testimonianza. Articoli da cui sembrava che questo processo andasse verso una fine non particolarmente decorosa». La pm Valentina Salvi propone il tema del condizionamento mediatico quasi a inizio requisitoria.
Un condizionamento mediatico che ha sì caratterizzato tutta la vicenda Bibbiano, il processo sui presunti affidi illeciti in val d’Enza, ma non, secondo la pubblica accusa, per l’emorragia di atti e intercettazioni coperti da segreto finiti su giornali e tv. La colpa non sarebbe delle interpretazioni forzate e falsate di quegli stessi atti, che hanno fatto travolgere gli imputati da una valanga di odio, al punto da spingere il gip a revocare le misure cautelari ai due principali indagati «proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica, tanto che essi devono temere per la loro incolumità».
No, la colpa sarebbe delle voci critiche - probabilmente il Dubbio, visto che a qualche teste ha chiesto se lo leggesse -, ree di aver raccontato la vicenda dal punto di vista del contraddittorio. Forse il resoconto del processo sarebbe stato più fedele agli atti di accusa se la cronaca avesse omesso il controesame di soggetti ritenuti fondamentali durante le indagini, ma che, in alcuni casi, sono stati persino indicati come indagabili.
Così si sarebbe ottenuta certamente una versione più in linea con la prospettiva accusatoria, ma distante dalla realtà dibattimentale. Che comprende anche la difesa e che sicuramente può essere certificata da verbali d’udienza e dal pubblico presente. A meno di non voler intendere la libertà di stampa come una distrazione dal racconto già deciso e non come una risorsa della democrazia.
Secondo la pm, nonostante il «processo nel processo fatto in questa aula», con riferimento alle numerose contestazioni della difesa, «la quasi totalità dei testimoni» ha confermato le sit. Una circostanza smentita quanto meno dalle dichiarazioni di indagabilità pronunciate dallo stesso tribunale. Ma Salvi ha citato numerose volte proprio i testi sentiti in aula, tutti, a suo dire, utili a sostenere la tesi accusatoria.
Nella prima delle sei udienze necessarie per arrivare alle conclusioni, Salvi ha portato in aula il presunto “metodo Nadia Bolognini” (difesa da Luca Bauccio e Francesca Guazzi), dal nome della psicoterapeuta a processo. Un tentativo che arriva dopo quello di dimostrare il metodo Claudio Foti, sconfessato dalla Cassazione in abbreviato, ma anche dalla rinuncia alla costituzione di parte civile da parte della famiglia della sua paziente, confermata oggi in aula.
Per tratteggiare tale metodo, Salvi ha tirato in ballo vicende che non sono ricomprese tra i casi sospetti finiti a processo, indicando come colpa quella di voler trattare il trauma. «In questo processo - ha spiegato Salvi - si contestano una serie di condotte eterogenee, però legate da un filo comune, l’essere finalizzate a attribuire credibilità e attendibilità al racconto dei minori su presunti abusi o maltrattamenti, durante le audizioni davanti a giudici o periti, immutando lo stato psicologico dei minori». Il tutto tramite la «denigrazione costante delle figure genitoriali, la rescissione dei contatti con la famiglia d’origine, interrogatori serrati volti alla riemersione induttiva di ricordi di abusi e maltrattamenti subiti». E non importa, per la veridicità della contestazione, «che quel maltrattamento sia avvenuto o meno».
Le relazioni dei servizi o degli psicologi a processo, dunque, avrebbero riportato interpretazioni personali e discrezionali di «fatti, circostanze, atteggiamenti, contegni o frasi del minore», orientate «a senso unico, per indurre nel lettore l’impressione che l’abuso sessuale, per quanto non sempre esplicitamente rivelato, vi sia stato e che i segni di traumi psicologici pregressi siano interpretabili alla luce di esperienze erotiche precoci».
Salvi ha parlato di «interrogatori serrati» svolti dall’assistente sociale Francesco Monopoli (difeso da Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro) e della «massiccia terapia di Bolognini», ciò non solo per veicolare l’esito delle audizioni dei minori davanti ai giudici o ai periti, ma anche per «accreditare le reazioni false» depositate in quei processi. Il tutto nonostante «gli imputati fossero consapevoli della realtà dei fatti».
Gli psicologi, secondo Salvi, condizionavano il ricordo dei minori con domande incalzanti e suggestive, alterandone il ricordo e l’emotività, sulla base di una «ostinata volontà di far emergere a tutti costi, con metodiche ben collaudate, abusi e maltrattamenti». E come esempio di ciò Salvi cita il «manifesto ideologico e terapeutico» di Hansel e Gretel, la onlus creata da Foti, la cui colpa era quella di schierarsi contro «adultocentrismo, negazionismo e cultura patriarcale». Insomma, dalla parte dei bambini, da considerare credibili. Per Salvi, «gli imputati erano convinti, in modo aprioristico, degli abusi. E il loro scopo era quello di far corrispondere la loro verità storica con la verità processuale. E per conseguire questo scopo falsificare le relazioni era un mezzo necessario».
Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale della val d’Enza (difesa da Oliviero Mazza e Rossella Ognibene) e Monopoli, ha aggiunto, si riconoscevano un ruolo salvifico, ponendosi sullo stesso piano di Gesù. «Chiunque si opponeva alle loro valutazioni, non importa se fossero colleghi, assistenti sociali, psicologi, magistrati - ha sottolineato la pm -,veniva accusato di essere incompetente, negazionista, adultocentrista, indifferente alla sofferenza dei minori». E quindi, per superare tutte le resistenze dei soggetti che «non vedevano», i due imputati «erano disposti a tutto, anche nei confronti della stessa magistratura», che andava «accompagnata a fare giustizia e a prendere le decisioni che per loro erano giuste». Una vera missione spirituale, ha evidenziato la pm, di cui farsi carico contro tutto e tutti.
Salvi ha citato diversi casi di minori non coinvolti nel processo “Angeli e Demoni”, soprattutto il cosiddetto caso zero, la ragazzina che veniva costretta a prostituirsi dalla madre - condannata in primo grado e poi deceduta, con tanto di confessione di alcuni degli uomini coinvolti. Per Salvi si tratterebbe di un caso esemplare per comprendere il metodo dei servizi, colpevoli, anche in questo caso, di aver provocato la rescissione del rapporto tra la minore e la madre che la faceva prostituire. In quel caso Monopoli e Anghinolfi avrebbero sperimentato la “preparazione” della minore alle testimonianze. «Questa vicenda è importante - ha sottolineato la pm -, perché è la prima in cui si acquisisce questo metodo di preparazione dei minori».
E la condanna della madre fu considerata una vittoria dal Servizio, che aveva deciso di utilizzare quel metodo di lavoro - che aveva appena portato allo smantellamento di una rete di pedofili certificata dalla giustizia - come modello. «Che questo modello sia stato poi seguito successivamente negli anni è un dato che è stato riscontrato anche nelle nostre vicende - ha evidenziato la pm -. Tra le caratteristiche e i fatti che sono oggetti di questo processo non c’è alcuna differenza. Il metodo è sempre rimasto identico».