«Mia figlia mi scriveva lettere commoventi che io non ho mai ricevuto. Ricevetti una sola lettera, di rabbia, consegnatami da Francesco Monopoli: mi disse che la bimba aveva finito l'inchiostro perciò aveva scritto lui». A dirlo in aula, lunedì, è stato uno dei padri vittime dei presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un racconto, però, totalmente smentito dai fatti e dai numerosi documenti depositati dalle difese. Che hanno scoperto, innanzitutto, che la lettera consegnata al padre era originale, nonché i precedenti penali violenti dell’uomo. Che pur essendo stato designato in sede di separazione come genitore collocatario della minore a lui “strappata” oggi non vive con la figlia: dopo lo sfratto subito, la ragazza è tornata a vivere con la madre e la situazione non è mai cambiata da ottobre 2021.

Fu la bambina a chiamare i carabinieri

La vicenda è quella di Martina (nome di fantasia) che, secondo l’accusa, i servizi sociali della Val d’Enza avrebbero strappato via alla famiglia senza un motivo. Ma ad affidarla ai servizi sono stati i Carabinieri, che il 7 giugno del 2016 furono contattati telefonicamente proprio da Martina, che chiese loro di recarsi a casa perché «mamma e papà l’hanno lasciata da sola». A recarsi sul posto furono il brigadiere Romeo Tanchis e il carabiniere Giorgio Biccirè. E poco dopo, il comandante della Stazione, Andrea Berci, contattò i servizi sociali, stilando un verbale (del quale Il Dubbio è in possesso) nel quale dichiarò di aver rinvenuto la minore «in situazione abbandonica e/o di grave pregiudizio, in quanto materialmente e/o moralmente abbandonata». Da quel momento, dunque, la bambina passò in carico ai servizi sociali. Ma non si trattava della prima volta: la prima segnalazione alla procura dei minori arrivò nel 2008, da un’assistente sociale mai coinvolta nelle indagini e secondo la quale erano presenti «elementi di preoccupazione sia rispetto alle condizioni di vita della minore sia rispetto al ruolo delle figure genitoriali». Elementi, questi, risalenti dunque a molti anni prima del blitz “Angeli e Demoni”, ma non contenuti nel fascicolo del pm. «La bimba non stava mai da sola - ha detto in aula il padre - o con la madre o con la zia o un’amica di famiglia, che veniva ad aiutare per le pulizie». Ma sono i vicini di casa, stando alle dichiarazioni dello stesso padre nel 2016 - e che sono state a lui puntualmente contestate in aula dalle difese - a confermare i lunghi periodi di solitudine della bambina, che spesso affermava di non avere nessuno che le cucinasse, al punto da chiedere aiuto dalla finestra. L'uomo - anche lui spesso fuori per lavoro - aveva infatti confermato i periodi di assenza della madre in un verbale di sette anni fa, negando poi le sue stesse dichiarazioni nel corso dell’indagine “Angeli e Demoni”, quando l’uomo descriveva una situazione del tutto diversa. «Ogni giorno chiamavo il mio avvocato ma Monopoli rispondeva che lui era malato, che la bimba aveva degli impegni o non voleva vedermi: c'era sempre una scusa». Ma anche questa circostanza si è rivelata non corretta: a testimoniare gli incontri e le telefonate protette sono i messaggi in cui Monopoli si informava dell’esito degli stessi incontri.

La presunta lettera modificata

Nel raccontare di una lettera in cui Martina esprimeva la sua delusione per le bugie del padre, l’uomo ha puntato il dito contro Monopoli, sostenendo che era stato lui ad aggiungere le frasi polemiche, di fatto falsificandola. La lettera era stata scritta dopo il ricovero di Martina in ospedale, a causa di un episodio epilettico. Monopoli, quella mattina, avvisò il padre, rassicurandolo sul fatto che lo avrebbe tenuto informato nel pomeriggio. L’uomo, però, disattendendo le prescrizioni del Tribunale dei Minori - che imponeva incontri protetti tra padre e figlia - si recò in ospedale, rassicurando la bambina sul fatto di essere autorizzato a tale incontro senza operatori presenti. Ma non era vero. Da qui la lettera: «Caro papà - scriveva Martina il 4 novembre 2017 - mi manchi tanto però ti chiedo una cosa perché mi hai mentito in ospedale dicendo che tu ti sei messo d'accordo con Francesco Monopoli che potevi venire? Sei obbligato a rispondermi e un'altra cosa: tu mi hai già mentito dopo il patto che non dicevamo le bugie? Ciao e ricordati di rispondermi con la verità altrimenti non mi fiderò più di te. Ciao! Baci». Secondo l’uomo, sarebbe stato Monopoli a scrivere le frasi rabbiose. Ma a smentire l’uomo sono i messaggi, depositati mercoledì in aula: la lettera, infatti, è stata inviata a Monopoli dalla famiglia affidataria, esattamente così come poi è stata consegnata al padre. Insomma, si tratta di una lettera originale e non manipolata da nessuno.

Le numerose contraddizioni

Sono numerose le contraddizioni dell’uomo. Che ha negato, ad esempio, un’ordinanza del Tribunale - depositata agli atti - che gli imponeva di collaborare affinché la figlia si riavvicinasse alla madre. Ma non solo: parlando della moglie con il ctu Giuseppe Bresciani, nominato nella fase di incidente probatorio nel procedimento penale contro la madre per l’ipotesi di maltrattamenti, l’uomo aveva raccontato che «la signora aveva altre vite, la signora si prostituiva, ho scoperto anche quello dopo... persone investigative di alto livello mi hanno confermato questo». Inoltre, a sommarie informazioni documentali nel 2016 aveva affermato anche che la bambina gli avrebbe riferito che la madre incontrava il proprio amante anche a casa loro, nei periodi di assenza del padre per lavoro, e che la stessa avrebbe assistito anche a scambi di baci tra i due, cosa che sarebbe stata costretta a tenere nascosta al padre, finché ha potuto. Affermazioni negate in aula, nonostante la dettagliata relazione del ctu (che testimonierà nel corso del processo) e i verbali di quelle sit, acquisiti dal collegio giudicante. Dalle indagini difensive è emerso però anche dell’altro: stando ad una relazione dei servizi sociali di altro Comune (al quale il caso era stato riassegnato dopo il blitz), redatta il 5 dicembre 2019 a seguito di un incontro protetto padre-figlia, l’uomo avrebbe confidato a Martina «di sapere già tutto prima degli altri» in relazione all’inchiesta. «Sapeva che il 27 (giugno, ndr) sarebbe scoppiata la bomba, sapeva delle cimici, delle intercettazioni, suscitando» nella figlia «stupore ed ammirazione». «Adesso che inizierà il processo riderà», annotavano ancora i servizi riportando le sue affermazioni. L’uomo, in aula, ha negato di aver mai pronunciato queste frasi: «Non è vero, per saperlo avrei dovuto essere un agente dei servizi segreti». Ma quelle parole sono nero su bianco.

Il disagio attuale della bambina

Gli avvocati Andrea Stefani e Valentina Oleari Cappuccio, difensori delle madri affidatarie di Martina, hanno depositato una relazione dei servizi sociali di Reggio Emilia, risalente ad aprile 2022, ovvero tre anni dopo il blitz. Una relazione che certifica la situazione attuale della ragazza: «In più di un’occasione, si è rischiato che la minore fosse consegnata ai servizi - si legge -. È stato necessario richiamare, anche in maniera molto forte, la coppia genitoriale alle loro responsabilità parentali e restituire loro di come queste loro posizioni compromettevano in maniera molto forte l'equilibrio psico emotivo della minore. I colloqui con la coppia genitoriale non sono assolutamente di facile gestione, il livello di conflittualità è ancora molto alto e ognuno, in maniera diversa, ha delle rivendicazioni nei confronti dell’altro e la minore viene, purtroppo, troppo spesso non vista, non considerata nelle evoluzioni psichiche». Tant’è che è stata la stessa Martina a chiedere «di riprendere gli incontri» con la psicologa dell’Ausl. Ma non solo: nonostante il padre avesse dichiarato al ctu Bresciani di tenere molto all’istruzione della figlia, «abbiamo riscontrato delle lacune da parte dei genitori che sono stati sollecitati a porvi rimedio, ed in particolare nessuno dei due aveva la password per controllare il registro elettronico (compiti, note, assenze etc...) e non avevano preso ancora i libri alla figlia (mancava la parte dei soldi del padre)». La ragazza è stata bocciata il primo anno di scuole superiori a causa del numero di assenze, 320 ore in totale.

La querela della moglie

La difesa di Federica Anghinolfi - Oliviero Mazza e Rossella Ognibene - ha portato in aula la querela dell’aprile 2008 sporta dalla madre della bambina per le percosse ricevute dal marito, dal cognato e dalla cognata, che a loro volta hanno sporto querela contro la donna, con la stessa accusa. Episodi che si sarebbero svolti, secondo gli stessi querelanti, alla presenza della bambina. E in diverse occasioni i carabinieri sono intervenuti per sedare le liti tra i due coniugi. L’uomo ha negato di aver mai picchiato la moglie, che nel 2008 è andata a vivere in comunità con la bambina. I servizi avevano chiesto al padre di uscire di casa per consentire alla donna di rimanere lì con la figlia, ma l’uomo si è opposto. Circostanza negata dallo stesso mercoledì in aula, ma contraddetta da un documento depositato dalla difesa: «In base alla situazione di grossa conflittualità fra la coppia genitoriale, alla presenza di una minore che ha assistito in più occasioni alle divergenze fra i suoi genitori e alla non disponibilità» del padre «di allontanarsi da casa - si legge in una relazione del 20 maggio 2008 inviata al Tribunale dei Minori -, il Servizio scrivente ha provveduto a collocare in emergenza» la madre con la bambina.

I precedenti del padre

L’uomo ha precedenti per reati violenti: una condanna per rapina ad un distributore di benzina - con tanto di calci e pugni al gestore, al quale vennero puntate due pistole, solo una quelle quali era un giocattolo -, condanna già nota alle cronache e alle parti, e una seconda condanna per minaccia aggravata, che l’uomo ha prima negato in aula, e poi, di fronte all’evidenza, ammesso. A scovare la seconda condanna è stato l’avvocato Nicola Canestrini, difensore di Francesco Monopoli. Stando alla sentenza - il reato si è poi estinto per prescrizione, ma dopo una doppia conforme -, il 13 gennaio 2010 l’uomo si è presentato in un bar insieme alla moglie, chiedendo alla donna al bancone «di consegnargli la pagina di giornale ove era riportata la foto della moglie (a lei consegnata in precedenza da quest'ultima, quando le aveva riferito “le cose” che l'imputato la costringeva a fare). Poiché la donna rispondeva di non avere più quel giornale, l'imputato si era alterato, aveva buttato il contenitore dello zucchero sul bancone del bar, l'aveva insultata e poi minacciata dicendole di stare attenta e che l'avrebbe “ammazzata” e mostrandole un coltellino che teneva in mano», col quale in seguito avrebbe anche lacerato la gomma dell’auto della donna (sul punto la querela è stata però ritirata).