«Si chiede al Tribunale di non avallare l’ennesimo tentativo difensivo di escludere dal materiale probatorio dibattimentale testimonianze sfavorevoli, constatata l’assenza di qualunque fondata argomentazione sia fattuale che giuridica». Con queste parole la pm Valentina Salvi ha chiesto al collegio presieduto da Sarah Iusto di “censurare” le «continue» eccezioni difensive nel processo “Angeli e Demoni”, sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un atteggiamento, quello delle difese, più volte etichettato come «tecnica dilatoria», in una sorta di strategia volta non tanto a rappresentare i propri assistiti, quanto a creare caos all’interno del processo.

Con una memoria di otto pagine, la pubblica accusa ha contestato, nel corso dell’udienza di lunedì, «l’ennesima eccezione sull’asserita coindagabilità di un testimone evidentemente “sfavorevole” alle difese», accusate di «stravolgere e strumentalizzare» lo strumento della coindagabilità ex articolo 210 del codice di procedura penale, che, «esclusivamente in questo processo» - dunque in maniera eccezionale -, verrebbe «estirpato dalla ratio e dall’alveo delle garanzie in cui si colloca» per essere, appunto, sfruttato «a seconda della convenienza o meno da parte delle difese, profittando della ancor parziale conoscenza degli atti da parte del Tribunale».

Oggetto del contendere, come già documentato dal Dubbio, la posizione di Anna Maria Capponcelli, consulente tecnica d’ufficio presso il Tribunale dei minori di Bologna, ritenuta, alla fine, ascoltabile senza l’assistenza di un legale. E la sua testimonianza, contrariamente alle aspettative, si è rivelata tutto fuorché sfavorevole alle difese.

Per raccontare la storia occorre, però, fare un passo indietro. Sono già sei, allo stato attuale, i testi ritenuti indagabili dalla Corte. Un vero e proprio record che, di fatto, indebolisce la tesi di un uso strumentale dell’articolo 210 cpp, confermando, invece, l’esigenza di approfondire. Un numero importante di casi, che ha spinto Oliviero Mazza, difensore insieme a Rossella Ognibene di Federica Anghinolfi (responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza) a replicare apertamente alla pm: «C’è un problema di impostazione delle indagini - ha sottolineato -, perché non è pensabile che tutti questi testimoni siano stati sentiti come persone informate sui fatti e che mai nessuno abbia rilevato la natura autoindiziante delle loro dichiarazioni».

Nella sua memoria la pm fa un esempio: «Se una infermiera determinata ad un uccidere un paziente, anziché inserire in una siringa della tachipirina, vi inserisse del cianuro, consegnando la siringa per l’iniezione ad un ignaro dottore e vi fossero altresì anche intercettazioni pregresse a documentare l’estraneità del dottore e l’induzione in errore della infermiera, qualcuno eccepirebbe mai di ritenere soggetto indagabile il dottore quale presupposto per la relativa testimonianza? Evidentemente no». Evidentemente, però, solo se si dà per assodata la colpevolezza di uno dei soggetti, senza valutare ipotesi alternative e, dunque, indagarle.

Il caso Capponcelli è pertanto emblematico proprio per sottolineare l’importanza del processo: ciò che era stato dato per assodato - ovvero le false informazioni dell’assistente sociale Francesco Monopoli al perito - è stato smentito, in aula, dai fatti, data la presenza di registrazioni, intercettazioni e di una mail che dimostrano l’esatto opposto della tesi accusatoria. Materiale, peraltro, già presente nel fascicolo della pm e disponibile ancor prima della chiusura delle indagini.

Per Salvi, Capponcelli e gli altri professionisti ascoltati durante le indagini avrebbero preso atto delle presunte falsità propinate loro dagli assistenti sociali solo una volta ascoltati a sommarie informazioni. Nel corso dell’udienza, però, è emerso come le informazioni in possesso dei testi fossero parziali. Almeno nel caso di Capponcelli, alla quale è stata fatta sentire una seduta della psicoterapeuta Nadia Bolognini - accusata di aver indotto un bambino a parlare di atteggiamenti sessualizzati a dire dell’accusa inesistenti - senza chiarire che non si trattava del primo incontro. Capponcelli, a sit, aveva definito suggestive le domande della psicoterapeuta al bambino.

Ma su domanda di Luca Bauccio, ha ammesso di aver ascoltato solo brevi stralci dei brogliacci e di essere stata incalzata dalle domande incessanti della polizia giudiziaria sul punto, chiarendo, infine, che la suggestività di quelle domande sarebbe venuta meno se si fosse trattato di una seduta successiva alla prima. Proprio come era in realtà, informazione, però, evidentemente non comunicata alla professionista.

La conclusione di Capponcelli, in ogni caso, ha spazzato via ogni dubbio: il contributo dei servizi sociali - vere o false che fossero le informazioni fornite - non ha influito sul suo lavoro. «Le indagini svolte e le sit in particolare sono simili ad una sorta di crocevia dantesco - ha commentato Bauccio -. A destra l’inferno della sottoposizione ad indagini e a sinistra il paradiso dell’assunzione della qualità di testimone».