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L’intervento dei servizi sociali della Val d’Enza, nel complesso, si è dimostrato aderente alle migliori buone prassi e alla disciplina della materia. I servizi sociali devono intervenire tempestivamente, prima che emergano situazioni di rischio, affrontando i problemi in modo da evitare che si aggravino. A dirlo è stato il professor Giovanni Garena, docente all’Università del Piemonte orientale e autore di una relazione sui servizi sociali della Val d’Enza, accusati dalla procura di Reggio Emilia di aver “pilotato” gli affidi. Garena è stato sentito come consulente di parte della difesa di Federica Anghinolfi - rappresentata dagli avvocati Rossella Ognibene e Oliviero Mazza -, ex responsabile del servizio sociale della Val d’Enza e principale imputata nel processo “Angeli e Demoni”.
In aula, Garena ha spiegato che è fondamentale che le segnalazioni avvengano in modo appropriato e che il concetto di “abbandono” non venga interpretato in maniera restrittiva. I tempi dei bambini, ha precisato, non coincidono con quelli degli adulti, e gli operatori devono essere in grado di riconoscere i bisogni e i diritti dei minori, che prevalgono su quelli degli adulti, intervenendo per prevenire situazioni che potrebbero mettere a rischio il loro benessere. Questo ruolo preventivo è cruciale, perché permette ai servizi sociali di affrontare i problemi prima che si manifestino in tutta la loro gravità.
Gli assistenti sociali non hanno funzioni ispettive: quando si recano presso l’abitazione di una famiglia che è sottoposta alla loro tutela, non hanno il potere di ispezionare i luoghi o perquisirli. Le relazioni degli assistenti sociali, dunque, non sono paragonabili a un “verbale” in senso stretto, e gli stessi operatori non sono assimilabili alla polizia giudiziaria. Il lavoro degli assistenti sociali si basa su una valutazione complessiva che tiene conto non solo degli aspetti materiali, come l’ordine e la pulizia, ma soprattutto del benessere del minore all’interno dell’abitazione, che dipende anche dalle relazioni familiari e dall’ambiente emotivo.
In caso di accuse di abusi da parte dei genitori, l’assoluzione o l’archiviazione delle stesse non comportano in automatico la ricollocazione del minore in casa. «Sono due aspetti differenti. Per gli assistenti sociali è importante valutare l’adeguatezza genitoriale», ha sottolineato Garena. Devono fare valutazioni sulle competenze genitoriali, sulla capacità di comprendere e rispondere adeguatamente alle esigenze primarie del figlio, le necessità e gli stati emotivi del minore, promuovere l’evoluzione della relazione genitoriale in base allo sviluppo del figlio e affrontare la relazione con l’altro genitore, soprattutto in caso di conflitto. In questo senso, ha aggiunto, le loro valutazioni non sono rapportabili a parametri universalmente riconosciuti: si tratta di valutazioni di carattere soggettivo, in quanto non codificabili. «Ciò significa che è un fuor d’opera parlare di falso valutativo - ha commentato a margine l’avvocato Mazza -, soprattutto con riferimento a una valutazione relativa al sospetto di abuso o maltrattamento».
Garena ha chiarito che le relazioni dei servizi non sono atti pubblici fidefacienti, perché possono essere tranquillamente smentite da prove di segno contrario e non fanno dunque prova fino alla querela di falso. Si tratta, perciò, di elementi valutativi che vengono trasmessi al Tribunale per i minorenni, che assume poi le determinazioni del caso dopo aver fatto una propria istruttoria ascoltando anche genitori e avvocati dei genitori. «L’accusa ha formulato imputazioni interpretando il ruolo degli assistenti sociali come se fossero degli ufficiali di polizia giudiziaria - ha evidenziato ancora Mazza -. Questo è, a mio avviso, l’errore metodologico dell’imputazione, che il professor Garena ha svelato attraverso la descrizione della corretta metodologia dei servizi sociali, che è tutt’altro rispetto a un’attività di polizia giudiziaria o ispettiva. Tant’è che la formazione dei servizi sociali non è tale da consentire un accertamento di fatti. Il loro è un lavoro di descrizione delle situazioni».
Con riferimento ad Anghinolfi, Mazza ha chiesto a Garena se una lettera di trasmissione implichi una condivisione della relazione che viene trasmessa. «Assolutamente no - ha replicato il consulente -, perché se il dirigente ritiene di essere compartecipe dell’ideazione della relazione la deve anche sottoscrivere». Cosa che Anghinolfi non ha mai fatto, limitandosi a trasmettere le relazioni. La sua leadership è stata riconosciuta da Garena come positiva, sia nella gestione delle condizioni di lavoro sia nel sostegno alla professionalità degli operatori. E il nucleo di valutazione esterno all’Unione le ha assegnato punteggi altissimi, in un caso 97 su 100. Il consulente ha sottolineato che non esiste, come invece ipotizzato dalla procura, l’idea di un uomo solo al comando che condiziona tutti gli altri assistenti sociali, perché si arriva all’extrema ratio dell’allontanamento solo attraverso un percorso che prevede più gradi di intervento e soprattutto una collegialità e una condivisione delle decisioni.
Ha inoltre evidenziato come la legge 14 del 2008 parli di “equipe territoriali”, stabilendo inoltre la priorità dell’affidamento familiare rispetto all’accoglienza in comunità. Quando un bambino non può più vivere con la propria famiglia per varie ragioni, dunque, l’ingresso in una comunità di accoglienza deve essere considerato come l’ultimo step, attivabile solo dopo aver esplorato tutte le altre opzioni.
«L’affidamento, che può essere a parenti, oppure extrafamiliare, può essere a tempo pieno oppure a tempo parziale (come per poche ore al giorno o solo per alcuni giorni), è uno strumento di intervento sociale fondamentale, sebbene complesso - ha inoltre spiegato -. La delibera regionale numero 1677 del 2013 sottolinea l’importanza di prevenire la condotta maltrattante, proteggere la vittima e recuperare, ove possibile, le relazioni interpersonali. Protezione e cura sono entrambe indispensabili per ridurre i danni e superare le conseguenze del trauma. Gli interventi di sostegno devono essere avviati solo quando si garantisce al minore una condizione necessaria per la sua sicurezza».
Garena ha inoltre fatto riferimento al protocollo di Milano, una guida metodologica sulle capacità genitoriali che rappresenta, a suo dire, un modello utile di riferimento: «Parlare del minore è un diritto-dovere, così da assolvere al duplice mandato di sostenere i genitori e le famiglie in difficoltà e contemporaneamente vigilare e intervenire quando si manifestano situazioni di rischio per il minore stesso - ha sottolineato -. Il lavoro dei servizi sociali sta dentro questa complessità, in cui si inseriscono meccanismi come l’ascolto dei minori e degli adulti. L’obiettivo non è l’allontanamento immediato, ma piuttosto supportare i genitori nel migliorare le loro funzioni. L’empowerment è fondamentale per identificare le risorse, sia visibili che potenziali, delle famiglie coinvolte».