«Troppi anni, troppe udienze e troppi testimoni, laddove la montagna sembra aver partorito non dico un topolino, ma addirittura qualcosa di ancora inferiore». Sono parole dure quelle con le quali l’avvocato Nicola Canestrini ha aperto la sua discussione nel processo “Angeli e Demoni”, sui presunti affidi illeciti in val d’Enza. Canestrini è intervenuto in difesa di Francesco Monopoli, assistente sociale per il quale è stata chiesta una condanna a 11 anni da parte della pm Valentina Salvi. Monopoli, nell’udienza di questa mattina, ha formalizzato la nomina, al fianco di Canestrini, dell’avvocato Giuseppe Sambataro, che ha affrontato l’intero dibattimento con grandissima preparazione, nonostante la pesantezza e la delicatezza del processo.

Presunzione d’innocenza sacrificata sull’altare della narrazione

Processo, ha detto Canestrini, che ha rappresentato il sacrificio della presunzione di innocenza sull’altare della narrazione, cosa che emerge sin dall’ordinanza con la quale il gip ha rimesso in libertà gli imputati, cosa resa possibile dalla «distruzione della loro immagine pubblica». «Sono parole che pesano come un macigno», ha sottolineato il legale. «Il dottor Monopoli, come tutti gli imputati, è innocente fino a prova contraria. Ma qui siamo partiti da una presunzione di colpevolezza - ha evidenziato -. Il metodo di giudizio nel nostro ordinamento è quello del dubbio pro reo, il dubbio non può essere utilizzato a sfavore dell’imputato» sulla base di «supposizioni completamente sganciate dalla realtà processuale. Può andare bene nei talk show, ma è un modo di procedere inammissibile in un’aula di tribunale».

Nessuna prova concreta

Anche perché in anni di processo, ha evidenziato Canestrini, non è emerso un solo testimone «che abbia attribuito a Francesco Monopoli la richiesta di scrivere falsità, né che gli abbia mai imputato la redazione di un documento falso». E nemmeno un’intercettazione in grado di inchiodarlo, nonostante fosse ascoltato costantemente, con un trojan, anche nei momenti più intimi e perfino - cosa non consentita dalla legge - mentre si consultava con il suo avvocato. Ma nessuna delle captazioni avrebbe confermato quanto scritto nei capi di imputazione, che risultano più concentrati sulla «personalità» di Monopoli che sui fatti. «Qui - ha sottolineato Canestrini - si mettono sotto accusa le convinzioni per poi cercare di aggiustare il materiale probatorio a seconda della convenienza». Come nel periodo della Santa Inquisizione, ha sottolineato, quando veniva chiesto all’imputato di abiurare, cioè di rinnegare le proprie convinzioni.

Dai “metodi” di Foti alla crisi della prova giudiziaria

Non solo. Il processo è iniziato quando c’era «l’uomo cattivo», che si chiamava Claudio Foti, lo psicoterapeuta assolto in via definitiva in abbreviato. «Se cerchiamo “metodo Foti” su Google, escono fuori decine, centinaia di articoli che così si riferiscono a quello che sarebbe stato fatto a Bibbiano - ha evidenziato Canestrini -. E ci aiuta a capire quanto fallace sia questa impostazione la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, laddove si legge: “Il gup ha recepito incondizionatamente le conclusioni rassegnate dal consulente del pm”». Limitandosi, cioè, alla sola fase delle indagini, ma senza che siano emerse delle prove nel processo. «Parlare di “metodi” va bene nelle discussioni da bar, ma non nelle aule giudiziarie, né nella storia giudiziaria locale», ha sottolineato Canestrini.

La requisitoria sotto accusa: omissioni, suggestioni, paure

Duro l’attacco al metodo di indagine e anche al metodo di conduzione del processo. «Ho letto la requisitoria - ha evidenziato - e la pm riferisce fatti smentiti da perizie, o testimonianze citate in modo parziale o incompleto. Non si può rappresentare come “accertato” un dato, quando si omette il controesame, oppure si dà per acquisito qualcosa che invece è stato contestato. Non si può - e piacerebbe a qualcuno - cristallizzare la prova sull’esito del solo esame diretto. Capisco la difficoltà della pm che si confronta con testimoni recalcitranti, che devono essere “rievocati”, attraverso contestazioni a catena. Ma le citazioni parziali sono inutili o persino dannose. Chi ha paura del risultato dibattimentale ha paura della propria ipotesi».

Il sistema che non c’è: numeri senza fondamento, segnalazioni documentate

È il metodo ad essere sul banco degli imputati, quel presunto «sistema» che non è affatto confortato dai numeri - nove i casi a processo -, «che è una bufala», perché manca «l’evidenza statistica», come emerso da più elementi, ma «con un piccolo sforzo ermeneutico» sono diventati «un’ipotesi accusatoria concreta». Eppure, i servizi hanno agito sempre sulla base di segnalazioni: della scuola, dei carabinieri o dei medici. «È singolare — ha aggiunto Canestrini — che non si sia trovato un solo caso in cui il servizio abbia fatto tutto da sé», nonostante nell’ipotesi accusatoria fosse un “sistema”.

I numeri gonfiati e il marketing giudiziario

I casi di presunte violenze sui minori si sono chiusi con archiviazioni, «prima ancora di arrivare a un contraddittorio pieno. Ho pensato spesso che abbiamo avuto assistiti condannati per molto meno. E sono contento che, in quei casi, sia prevalsa la prudenza. Sono anche sicuro che questa richiesta di archiviazione - ha aggiunto Canestrini - non sia stata influenzata dall’indagine contemporanea sui numeri». Numeri che non sono stati supportati da alcun dato, ma dalle sole dichiarazioni del maresciallo Giuseppe Milano. «Mi sarei aspettato grafici, analisi, dati - ha evidenziato Canestrini -. Ma qui abbiamo solo le dichiarazioni di un investigatore. Mai verificate». Eppure, «è sembrato importante per qualcuno dare il nome “Angeli e Demoni" all’indagine - ha evidenziato -. Il problema è che la polizia giudiziaria non deve fare marketing. È evidente che l’obiettivo era l’opinione pubblica, non l’autorità giudiziaria», ha aggiunto.

Prove ignorate, testimoni condizionati, dichiarazioni ribaltate

Ma non solo. Canestrini ha sottolineato come la pubblica accusa «non ha mai ritenuto di adempiere al proprio dovere di ricercare anche elementi di prova a favore dell’indagato». Che pure c’erano, tra le tante carte alle quali si sarebbe potuto fare riferimento, come i fascicoli relativi ai minori, dai quali sarebbero emersi comportamenti nettamente contrari alla teoria di un tentativo di allontanare i minori ad ogni costo. «Le indagini difensive con prove dichiarative erano impossibili perché era impossibile trovare persone che si volessero esporre - ha sottolineato Canestrini -. Molti temevano di restare coinvolti nell’indagine (tant’è che molti testimoni si dicevano “reduci” dagli arresti, come dopo una guerra, ndr) e quindi sono state sostanzialmente documentali».

Tutti i testimoni erano costantemente informati sui dettagli della indagine, pubblicati a ritmo martellante sui giornali. E molti di loro - minori compresi - avrebbero, per loro stessa ammissione, cambiato opinione sui fatti dopo la lettura degli articoli colpevolisti. Cioè quasi tutti. Ma le dichiarazioni attribuite a minori (secondo la procura falsamente) nelle relazioni dei servizi sono state anche confermate in aula, parola per parola, ad esempio dalla paziente di Foti, unica minore seguita dai servizi citata come testimone dalla procura. E mentre l’accusa contesta la mancanza di prove che quelle dichiarazioni fossero vere, Canestrini ha sottolineato che è proprio l’accusa a non essere riuscita a dimostrare la falsità di quei contenuti, ribaltando l’onere della prova.

«Nel corso di tutto il processo - ha sottolineato Canestrini - non è emerso un solo testimone che abbia smentito i contenuti dei verbali prodotti dagli operatori». Al contrario, sarebbero stati proprio i testimoni dell’accusa «che seduti su quella sedia hanno disconosciuto quanto verbalizzato dai pubblici ufficiali», in ben 13 casi.

Errori di trascrizione e testimoni “rievocati”

Tanti gli esempi di stranezze fatti da Canestrini, ma uno in particolare è apparso grave: una intercettazione riportata da Milano con un virgolettato errato, probabilmente un errore di ascolto poi corretto da una perizia tecnica disposta dal Tribunale. Nonostante ciò, la pm in requisitoria ha riportato ancora una volta la versione errata, sostenendo che Monopoli stesse tentando di convincere una donna a raccontare il falso davanti all’autorità giudiziaria. «Com’è possibile – si è chiesto il legale – che il pm riproponga un dato smentito tecnicamente come se fosse ancora attendibile?». L’ipotesi più benevola è che non abbia letto la perizia, e questo – sottolinea la difesa – «è un vero peccato». Eppure, a Monopoli non è stata concessa nessuna possibilità di errore. Un’affermazione ironica, alla luce dei tantissimi testi dell’accusa risultati potenzialmente indagabili in questo processo. «Quelle dichiarazioni hanno formato il materiale investigativo che ha portato la pubblica accusa a esercitare l’azione penale. A disporre il rinvio a giudizio. Nessuno si occuperà mai di queste questioni, naturalmente», ha evidenziato.

Interferenze nei verbali, omissioni, e “auto-intercettazioni”

E all’esito del dibattimento «risultano accertate interferenze nel contenuto delle dichiarazioni assunte a sit da parte degli ufficiali di pg, che spacciavano ipotesi investigative per certezze ai testimoni, orientandone di fatto la testimonianza, colloqui con chi poi sarebbe stato citato come testimone di cui manca ogni traccia documentale, interruzioni delle sit non documentate a verbale, un misterioso ed inquietante avviso a verbale sul fatto che il pm “conosce le circostanze in cui la testimone (..) venne sentita e quello che è successo durante le sommarie informazioni”, Adr non solo senza domande - salvo rarissime ipotesi: e quando ci sono, spesso sono “suggestive e suggerenti”, per usare una dizione cara all’accusa -, ma anche completamente omesse - un Adr su più pagine, quasi fosse un flusso continuo e spontaneo, cosa smentita a dibattimento».

Canestrini ha poi proposto il tema dell’autointercettazione, quando Milano, intento a chiamare una teste che non ha risposto, ha affermato «questa settimana è quella ideale per gli audio. Quello dei compiti in classe, del sesso con mamma e papà… tre o quattro devono partire». Ma che vuol dire, si è chiesto Canestrini? L’ipotesi è che fossero dirette alla stampa.

Il caso Trincia

Ma «un altro elemento comico», ha aggiunto il legale, è stato il tentativo dell’accusa di inserire tra i testimoni il giornalista Pablo Trincia, autore del podcast “Veleno” sui diavoli della bassa modenese (tutti condannati in via definitiva e con revisione negata). «Diciamo, per fortuna ci è stata risparmiata questa buffonata di avere un autore di podcast che avrebbe dovuto svelare al tribunale quali collegamenti ci fossero stati tra quell’indagine di cui ha fatto un podcast e questa indagine - ha evidenziato Canestrini -. Paolo Trincia avrebbe probabilmente ripetuto ciò che ha già detto in varie interviste».

In una ha addirittura affermato che «“i carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano”. Un giornalista, autore di podcast, che fornisce ai carabinieri una chiave investigativa? Con i carabinieri che — spero smentiscano — chiamano un giornalista per ringraziarlo e dirgli che ha dato loro una chiave investigativa? È troppo. Non sapremo mai cosa sia veramente successo in questo che, agli occhi miei, è sembrato un totale corto circuito».