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Una fase del processo su Bibbiano, denominato "Angeli e Demoni"
Nessuna capacità di contestualizzare le sedute effettuate dalla psicologa, nessun ascolto diretto del minore, nessun test somministrato al minore. Soprattutto «nessun falso ricordo». Eppure, per la psicologa Rita Rossi, consulente dell’accusa nel processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni”, già sconfessata dalla sentenza d’assoluzione dello psicoterapeuta Claudio Foti, i danni causati dalla psicoterapia ad A. uno dei minori coinvolti – sarebbero «irreparabili». Una conclusione sconfessata da una relazione clinica lunga 150 pagine, successiva al blitz “Angeli e Demoni” e risalente a febbraio 2020 – dunque nel bel mezzo della tempesta mediatica –, con la quale il Servizio sanitario regionale certifica, a seguito di una batteria di test e di una pluralità di incontri, che il ragazzo è «all’interno dei punteggi di normalità».
Ragazzo descritto come circondato da amici, dedito al calcio e alla musica e dunque tutt’altro che depresso, come scoperto a seguito di un’indagine difensiva condotta dai legali dell’allora responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi, rappresentata dagli avvocati Rossella Ognibene e Oliviero Mazza. Insomma, secondo l’Ausl il minore non avrebbe il disturbo certificato dalla consulente della Procura, disturbo che fa da base alle accuse formulate ad assistenti sociali e psicoterapeuti.
Ma non solo: è la stessa Rossi a smentire se stessa, affermando in aula di non poter imputare alla psicoterapeuta Nadia Bolognini l’insorgenza di alcun falso ricordo relativo ai presunti abusi e maltrattamenti agiti dal padre e raccontati dal bambino. Abusi, per inciso, denunciati dalla madre prima che il ragazzo entrasse in contatto con la psicoterapeuta e con i servizi sociali, e anzi ragione stessa dell’intervento dei professionisti in questione.
È stato un lungo controesame, quello di Rossi, “interrogata” per nove ore da Luca Bauccio, avvocato di Bolognini, al quale la psicologa ha di fatto ammesso di non conoscere le sedute che avrebbero provocato il disturbo da lei diagnosticato.
Un disturbo non identificato – manca infatti la diagnosi –, ma in grado di danneggiare in maniera a suo dire irreparabile lo sviluppo emotivo, affettivo, relazionale e cognitivo del minore. Rossi ha dichiarato di aver ascoltato le registrazioni delle sedute, ma in aula, incalzata dalle domande di Bauccio, non è stata in grado di contestualizzare i momenti terapeutici citati dal difensore. E ha ammesso di non aver effettuato alcun test mentale per stabilire il danno cognitivo da lei certificato. Tale danno, ha sottolineato, sarebbe stato dedotto dall’unico colloquio avuto con il ragazzo, ovvero l’incontro preparatorio in vista dell’ascolto di A. da parte degli inquirenti. Un incontro, dunque, privo di domande di tipo diagnostico. Ma non solo: Rossi avrebbe tratto le informazioni utili per certificare il danno dalle relazioni dei servizi sociali, le stesse tacciate di falso dalla procura e dalle quali, come dichiarato dalla stessa all’inizio del suo lavoro di consulenza, doveva prescindere. Dal colloquio preparatorio avuto con il ragazzo, Rossi avrebbe inoltre ricavato la conclusione che A. soffrisse di ansia e confusione mentale, ovvero una ridotta capacità di discernimento e di comprensione. «Perché, allora, non lo ha segnalato alla procura, dicendo che il bambino non poteva sostenere una sit, in quanto in una condizione di sofferenza e di confusione mentale?», ha chiesto Bauccio, che però non ha ottenuto risposta. Rossi avrebbe inoltre dedotto una deflessione dell’umore in una forma talmente grave da essere irreparabile sulla scorta di un’informazione fornita dalla madre, che le aveva detto che il bambino aveva pianto. Per Rossi, la colpa di Bolognini sarebbe stata quella di ledere il diritto di relazione tra A. e il padre, provocando così gravissime conseguenze sulla sua stabilità psichica.
Una stabilità relazionale, quella tra padre e figlio, la cui esigenza, a suo dire, prescinderebbe dalle ragioni del mancato incontro con il padre, in questo caso accusato di aver abusato sessualmente del figlio ( accuse poi archiviate, ma mosse dallo stesso ragazzino che ne aveva parlato alla madre). Il riferimento è alla sindrome di alienazione parentale, teoria antiscientifica già smontata dalla Cassazione, elaborata da Richard Gardner, sostenitore della pedofilia come normalità ed espulso dalla Columbia University di New York proprio per le sue tesi. Bauccio ha letto in aula alcuni scritti con i quali Gardner sosteneva che la pedofilia fosse utile all’umanità. Per la teste, però, separare padre e figlio sarebbe sempre un errore, sostenendo – di fronte alla richiesta di una legge scientifica a copertura del suo assunto – che il nesso di causa tra la lesione del diritto di relazione e la deflessione del tono dell’umore sarebbe stabilito «dalla Cedu» e non, dunque, da una legge scientifica.
La teste ha anche commentato le domande poste ad A. nel corso delle sommarie informazioni testimoniali, domande definite, in molti casi, induttive, suggestive, dicotomiche e chiuse, ovvero tutto ciò che per la Carta di Noto – considerata da Rossi la “bibbia” della psicologia forense – non si dovrebbe fare.
Il quesito posto dalla procura a Rossi prevedeva l’accertamento del falso ricordo e, una volta provato, le sue eventuali conseguenze sulla psiche del minore. Ma il falso ricordo, ha ammesso la teste in aula, non sarebbe stato dimostrato. Ma non solo: Rossi ha dichiarato che la malattia mentale può essere accertata senza bisogno di diagnosi: in sede di consulenza forense, ha dichiarato, «non è necessario somministrare i test e non è necessario il colloquio diagnostico», in quanto i test potrebbero danneggiare psichicamente il minore.
Eppure, sul sito di un’associazione di cui proprio Rossi è vicepresidente e citato in aula da Bauccio viene affermato l’esatto contrario: «Conoscere e utilizzare con efficacia tutti gli strumenti che la psicologia mette a disposizione ( tecniche del colloquio, test psicologici) non è una scelta – si legge sul sito –, ma un nostro obbligo professionale, che innesca un processo virtuoso di cui si giova la committenza, lo psicologo che interviene e tutta la nostra categoria». Lo stesso concetto affermato da Rossi in un suo libro. Un principio che, però, non ha ritenuto di seguire sui bambini di Bibbiano.