“Demone, verme”. “Bisogna sgozzarne uno per educarne 100”. “Impiccati'. “Mostro”. “Orco”. Queste e altre centinaia di frasi simili si sono abbattute sulla vita dell’ex sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, all’indomani dell’operazione “Angeli e Demoni”, sui presunti affidi illeciti. E sei anni dopo quei post, 46 persone sono finite a processo per diffamazione e minacce nei confronti del politico, nel frattempo uscito fuori dal processo e tempestato di messaggi intimidatori, rivolti a lui e alla sua famiglia, complice anche la grande risonanza mediatica dell’inchiesta, sulla quale sono circolate centinaia di fake news.

Come quella dell’elettroshock sui bambini, che nelle primissime ore era stata attribuita anche a Carletti. L’inchiesta fu cavalcata dalla politica, che la usò strumentalmente per costruire la campagna elettorale delle regionali 2020 in Emilia Romagna. Tra le oltre 200 persone querelate da Carletti c’era anche l’allora vicepremier Luigi Di Maio, che sul suo profilo Facebook - poi cancellato -, il 27 giugno 2019, pubblicò un video pieno di accuse e, soprattutto, un post con la foto di Carletti in fascia tricolore e la scritta “Arrestato”, alla quale si aggiungeva la frase “Affari con i bimbi tolti ai genitori”.

«Col Pd non voglio avere niente a che fare - scriveva Di Maio -. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare». Da lì un’ondata di insulti e minacce, con la promessa di “impalare”, “fucilare”, “piantare una pallottola nelle ginocchia e una nei genitali” o “prendere a sprangate in faccia” Carletti, “un morto che cammina”.

«Carletti - spiega il suo legale, Giovanni Tarquini - presentò le denunce nell’immediatezza dei fatti, proprio per chiedere un altrettanto immediato intervento a tutela sua e, prima ancora, dei suoi familiari. Erano esposti a un fuoco incontrollato di insulti e minacce ignobili, con ogni conseguenza morale e sociale e che hanno fatto temere seriamente per la loro incolumità personale. Arriviamo a processo dopo 6 anni. C’è chi dice che non è mai troppo tardi». Nonostante si trattasse di insulti e minacce su Facebook, infatti, le indagini sono durate cinque anni e sono state chiuse solo lo scorso anno.

A condurle Valentina Salvi, la stessa pm che ha fatto finire ai domiciliari - e poi a processo - Carletti e che ora rappresenterà l’accusa anche contro i suoi hater. Dai quali ha depennato Di Maio: «All’epoca dei fatti - si leggeva nella richiesta di archiviazione - rivestiva la carica di leader politico di un partito, ma anche e soprattutto la carica di vicepresidente del Consiglio nonché ministro delle Politiche sociali e deputato della Repubblica. Quanto espresso nel post pubblicato presso la nota piattaforma social deve anzitutto essere inteso quale commento ad una vicenda giudiziaria di pubblico interesse e dominio, oggettivamente qualificabile quale manifestazione di un pensiero politico, avendo la vicenda assunto anche rilevanza politica. Doveroso, inoltre, evidenziare che l’indagato, nel post in argomento, tra l’altro pubblicato nell’immediatezza dei fatti, richiama e commenta notizie ampiamente pubblicate e diffuse dai media e dai giornali, in considerazione della gravità della vicenda».

La difesa di Carletti si è opposta alla richiesta di archiviazione, evidenziando il fatto che furono proprio i post di Di Maio a scatenare commenti pieni di odio e minacce. «Questa è una vicenda che aspettavamo da tempo - ha spiegato Tarquini al Dubbio -, considerando che le denunce risalgono ormai a quasi sei anni fa. È stato un percorso tribolato, che finalmente arriva a un passaggio significativo con l’avvio del processo. Questo procedimento coinvolge solo una parte di coloro che hanno partecipato a quella vasta ondata di insulti e linciaggio mediatico contro il dottor Carletti, esplosa al momento dello scandalo. Purtroppo, molti si sono sentiti legittimati a seguire l’esempio del ministro Di Maio, che è stato uno dei primi a pubblicare offese e insulti che, a nostro parere, non avevano nulla a che fare con il diritto di critica politica. Sappiamo che la procura ha richiesto l’archiviazione per il ministro, sostenendo che le sue parole siano scriminate dal diritto di critica. Su questo punto abbiamo fatto opposizione, e anche questa questione sarà discussa parallelamente al procedimento in corso. Ovviamente, lasciamo al giudice il compito di fare il proprio lavoro».

Per quanto riguarda il processo sugli hater, che inisierà ad aprile, il rischio è quello della prescrizione. «Parliamo di reati come la diffamazione e le minacce, che si prescrivono in sei anni più un quarto, quindi sette anni e mezzo in totale: sei anni sono già trascorsi. L’auspicio è che si possa procedere rapidamente per concludere dignitosamente il processo, individuando le responsabilità più gravi, che appaiono evidenti - ha aggiunto Tarquini -. Se ciò non sarà possibile, è chiaro che si percorreranno altre vie, soprattutto quella civilistica. Ma non si tratta di una questione personale: questa vicenda è diventata il simbolo di una realtà che si ripropone quotidianamente e che, a mio avviso, deve essere contrastata.

Carletti, per il suo ruolo istituzionale, vuole lanciare un messaggio chiaro: affidiamo alle istituzioni e ai tribunali il compito di verificare i fatti, evitando di alimentare quei climi medievali che si manifestano nei social con insulti e linciaggi». Tarquini ha definito una «stranezza» il fatto che a indagare sia stato lo stesso magistrato che ha condotto un processo contro Carletti. «Credo che questo abbia creato delle difficoltà nella gestione del fascicolo, che invece lo vedeva come persona offesa. Queste difficoltà, sicuramente da un punto di vista oggettivo, hanno contribuito al trascorrere inutile del tempo ha concluso -. Chissà, potrebbe essere questa l’occasione per proporre una regolamentazione sugli incarichi negli uffici, in modo da evitare situazioni simili».