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La morte di quella ragazza di 20 anni la mattina di martedì scorso, al terzo piano dell’ospedale di Bergamo, forse poteva essere evitata. Non poteva muoversi, perché era legata.
LETTO DI CONTENZIONE La ragazza aveva problemi psichiatrici e la norma vuole, nel caso dei pazienti che subiscono metodi di contenzione, che la vigilanza sulle loro condizioni venga intensificata in modo capillare.
Ogni quindici minuti devono essere guardati direttamente dal personale, mentre ogni mezz’ora è d’obbligo prenderne i parametri vitali. Il ricorso alla contenzione, però deve essere limitato a ragioni terapeutiche e di sicurezza dei medesimi pazienti, specie nel caso possano ricorrere a gesti pericolosi per sé o per gli altri, come potrebbe essere avvenuto per la giovane ricoverata al Papa Giovanni. Nell’incendio sono rimasti intossicati altri otto pazienti.
UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA Il sindacato Uil, tramite il suo segretario generale della provincia Rossella Buccarello, ha spiegato che quanto accaduto disegna uno scenario denunciato da tempo. «L’assenza di monitoraggio dei pazienti della Torre 7 si inserisce all’interno di una realtà fatta di blocco del turnover, mancanza di medici e impossibilità di assumere anche fuori dai ruoli del personale sanitari», denuncia il sindacato.
Quello che è certo la morte della ragazza è stata di una tragedia immane. Bruciata viva, perché non poteva muoversi. Una persona, di fatto, privata della libertà.
L'INTERVENTO DEL GARANTE Per questo motivo è intervenuta l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà annunciando che si costituisce parte offesa nell’inchiesta sulla morte della giovane.
La Regione Lombardia ha già chiesto l'istituzione di una commissione di verifica, mentre sarà la Procura della Repubblica a individuare le eventuali responsabilità.
Il Garante nazionale, da parte sua, si costituirà come parte offesa, così come fa in ogni caso di morte di persone private della libertà, quando il decesso è connesso con la situazione di restrizione.
Il Garante nazionale nell'esprimere la propria vicinanza alla famiglia della giovane vittima, sottolinea ancora una volta la drammaticità della contenzione delle persone nelle istituzioni psichiatriche e delle sue possibili conseguenze.
UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO La morte di questa ragazza non può non evocare la storia di Antonia Bernardini, morta il 31 dicembre 1974 dopo quattro giorni di agonia a causa alle ustioni riportate su tutto il corpo, dopo che con un fiammifero ha incendiato il materasso del letto del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli dove era legata.
Una vicenda che, all’epoca, fece scalpore rimbalzando sulle principali testate giornalistiche alimentando un dibattito pubblico sui metodi di cura adottati nei manicomi, in particolare, sulla contenzione e sulla disumanità che regnava in quelle strutture.
UN LIBRO UTILE Una storia, quella di Antonia Bernardini, che è stata dimenticata per parecchi anni ma che, grazie al giornalista Dario Stefano Dall’Aquila e al ricercatore Antonio Esposito, è tornata d’attualità nel libro scritto a quattro mani “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”
Oggi però i metodi di contenzione devono avere però regole ben precise, ma soprattutto devono essere una extrema ratio. I criteri ai quali si deve conformare il trattamento della malattia mentale e del malato, in qualsiasi condizione giuridica o civile egli si trovi, sono stati formulati dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Questi prevedono che il paziente abbia il diritto a essere curato in un ambiente la cui restrittività sia ridotta al minimo e con un trattamento che riduca al minimo le intrusioni nella sfera della fisicità, della limitazione di movimento e soprattutto della necessità contenitiva.
Non sono rari i casi di chi muore per contenzione. Proprio Il 4 agosto scorso, è stato il triste anniversario della morte di Francesco Mastrogiovanni, spirato mentre era legato sul letto.