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LaPresse
«Il convincimento del giudice (che non è mai “libero” - come erroneamente a volte si dice - ancorato com’è a rigorosi criteri di valutazione delle prove, di cui deve dar conto con una congrua motivazione) non può e non deve fondarsi sui sondaggi o sugli umori popolari»: sono parole nette e severe contro il processo mediatico quelle del giudice estensore Vincenzo Capozza scritte nelle motivazioni della sentenza con cui il 12 luglio scorso i giudici della prima Corte d'Assise d'Appello di Roma hanno confermato l'assoluzione di Franco Mottola, della moglie Anna Maria e del figlio Marco nel processo per la morte di Serena Mollicone, uccisa il primo giugno 2001 ad Arce (Frosinone) e ritrovata due giorni dopo in un boschetto.
Il pg aveva chiesto una condanna a 24 anni per il padre e 22 per il figlio e la moglie, dopo la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale che alla fine però ha confermato «l’incertezza e la contraddittorietà degli elementi per affermare la responsabilità degli imputati». Per rafforzare maggiormente la motivazione su questo versante il magistrato arriva a scomodare anche quello che Pier Paolo Pasolini scrisse nel lontano 1974 sui misteri d’Italia: «Qui, nelle aule di giustizia, non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant'anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi».
Questo caso, sin dal primo grado, si era caratterizzato dall’assenza di prove contro gli imputati; tuttavia in televisione e su molti giornali vi era stato un processo parallelo che aveva condannato la famiglia Mottola prima dell’Aula di giustizia e senza dare peso al contraddittorio difensivo. Addirittura gli imputati, gli avvocati e i consulenti erano stati aggrediti dalla folla inferocita dopo la lettura della decisione di primo grado. Mentre molti giornalisti hanno alimentato un trial by media spietatissimo nei confronti degli imputati, inseguendoli per strada e chiedendo la loro testa solo perché si rifiutavano di rispondere a dei veri e propri agguati davanti alle telecamere, i giudici d'appello hanno rimarcato invece che occorre «prestare ossequio a un altro principio cardine del diritto processuale penale: l’art. 533 del codice di rito» che «esordisce con la frase “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”».
Si tratta di un principio che «al pari del curiosamente omonimo inespugnabile Forte valdostano – è inattaccabile da chi è chiamato a giudicare». Chissà se gli stessi media colpevolisti a prescindere daranno ora lo stesso spazio a quanto affermato dai magistrati nelle motivazioni, dove leggiamo ancora: benché «questa Corte non ignora che, nel corso dei lunghi anni trascorsi dopo la morte di Serena, si sia progressivamente radicata in larga parte dell’opinione pubblica la convinzione della responsabilità» dei Mottola tuttavia gli stessi giudici ritengono «di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati» e sanno che «una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita su fondamenta instabili».
Il giudice estensore, andando avanti nel motivare la sentenza, sembra che voglia persistere nel dare una doverosa lezione alla stampa: «Applicando la regola fondamentale, di derivazione anglosassone, insegnata ai cronisti – si legge infatti a pagina 45 – per descrivere nei suoi elementi essenziali un accadimento e, cioè, quella delle cinque W (who, what, when, where, why) o se si preferisce la locuzione ciceroniana indicante i criteri per svolgere correttamente una composizione letteraria (quis, quid, ubi, quibus ausili, cur, quomodo) possiamo affermare che la ricostruzione presenta molte lacune».
La conseguenza è che «non vi è certezza che la barbara uccisione della povera Serena sia avvenuta nella caserma dei Carabinieri di Arce: non è certo che la ragazza sia entrata in quel luogo, non è certo che sia stata scagliata contro la porta, ancora più incerto è che la seconda parte dell'aggressione alla sua persona (quella, letale, dell'imbavagliamento e dell'asfissia) sia avvenuta nella stessa Stazione». Inoltre «deve ribadirsi che le incertezze appena rappresentate sono accentuate dalla mancata prova del movente rivelatosi evanescente». Tale situazione - che per la Corte si evince «da un compendio probatorio complessivamente insufficiente e contraddittorio» - ad avviso dei giudici «impedisce di individuare gli imputati Mottola - o alcuno di loro - quali responsabili dell'omicidio di Serena Mollicone».
Per il coordinatore del pool della difesa dei Mottola, il criminologo e professor Carmelo Lavorino, le motivazioni della sentenza d'appello «riconoscono la nullità, l'inconsistenza e la totale incertezza dell'impianto accusatorio e di fatto danno pienamente ragione al lavoro della difesa degli imputati e della difesa dei Mottola, sia alle nostre fortissime e giuste critiche all'impianto accusatorio ed alla metodologia delle indagini, sia al nostro lavoro del tipo analitico, logico-investigativo, forense, criminalistico, criminologico e di diritto».