Il patron del quotidiano la Sicilia Mario Ciancio Sanfilippo, 92 anni, ex presidente della Fieg e imprenditore sino a pochi anni fa tra i più influenti dell'isola, è stato assolto dalla prima sezione penale del Tribunale di Catania perché il fatto non sussiste. Ciancio era da anni sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza di primo grado è arrivata dopo un lunghissimo excursus giudiziario e numerosi colpi di scena, compreso il sequestro dei beni, per oltre 160 milioni, poi restituiti interamente al proprietario. La Procura a suo tempo aveva chiesto la condanna a 12 anni per l’editore.

Il processo era cominciato nel 2017 e verteva sui presunti rapporti dell’allora direttore della testata siciliana, poi dimessosi, con esponenti di livello della cosca mafiosa catanese che facevano riferimento al clan di Nitto Santapaola. Ipotesi che è stata sempre contestata dall’imputato e dai suoi legali. Ciancio, quasi un secolo di vita, imprenditore tra i più potenti dell’isola, ha avuto rapporti politici ai massimi livelli e interessi che, oltre all’editoria hanno spaziato nel campo delle costruzioni, quelle di numerosi centri commerciali sino ad arrivare alla passione per l’arte e i reperti antichi. In mezzo a tutti questi interessi si sarebbero celati, secondo i magistrati, i presunti intrecci con la famiglia Santapaola Ercolano, contenuti all’interno di un voluminoso fascicolo di indagine.

Il dispositivo della sentenza è stato letto ieri in aula, nel silenzio più assoluto, dal presidente della Corte, Roberto Passalacqua. La sentenza segna una pesante sconfitta per il castello accusatorio della Procura etnea che già nel volgere di poco tempo ha dovuto incassare l’assoluzione di un altro esponente di spicco della città: l’ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo. Vicende che gettano una pesante ombra sulle ricostruzioni della Procura e sulla corretta applicazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nei cinque anni di processo ci sono stati molti passaggi significativi. Il 20 marzo dell’anno scorso i pm avevano chiesto la condanna a 12 anni per l’imputato. La vicenda giudiziaria per il patron della Sicilia era, però, cominciata addirittura 10 anni prima, nel 2010. Nel 2012 era stata la stessa Procura a chiedere l’archiviazione, ma a respingere la richiesta era stato il gip Luigi Barone che aveva rimandato il fascicolo alla Procura disponendo un supplemento di indagine.

Nel 2015 gli inquirenti avevano chiesto il rinvio a giudizio dell’indagato, ma l’allora gup Gaetana Bernabò Di Stefano aveva disposto il non luogo a procedere pronunciandosi in particolare sulla inesistenza del reato di concorso esterno scatenando un mare di polemiche. La Procura allora presentò ricorso in Cassazione che nel settembre 2016 dispose un nuovo procedimento nei confronti di Ciancio che venne nel 2017, rinviato a giudizio. Adesso, alla fine di un procedimento infinito, arriva l’ultima sentenza che segna un punto fermo sul procedimento e viene accolta con soddisfazione dai legali dell’imputato Carmelo Peluso e Francesco Colotti dello studio della sottosegretaria Giulia Buongiorno. La tesi accusatoria si basava su numerosi episodi.

Anche la linea del quotidiano è stata messa sotto accusa dai Pm. Secondo i pentiti Siino, Di Raimondo e Ferone «il rapporto tra l’imputato eCcosa nostra si declinava anche in una certa attenzione da parte del Ciancio a ovattare le informazioni che riguardavano Cosa nostra catanese». Sotto la lente d’ingrandimento anche altri episodi. Come quando un cronista del quotidiano fu chiamato nella stanza di Ciancio e redarguito dall’editore- direttore davanti al boss Pippo Ercolano che chiedeva conto di un articolo pubblicato. E ancora il necrologio negato al padre del commissario Beppe Montana, ucciso nel 1985 a Palermo alle cosche.