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Un'immagine di Jesus Christ Superstar, film del 1973 dove Gesù è interpretato da Ted Neeley
Come indica il Vangelo secondo Luca Gesù di Nazaret inizia la sua predicazione che aveva «circa trent’anni», subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista lungo le sponde del fiume Giordano.
La sua attività non durerà più di 36 mesi, concentrata in una zona di pochi chilometri quadrati e con un seguito molto ristretto, le sue gesta avrebbero potuto in tal senso rimanere confinate nel piccolo circolo dei suoi seguaci e non arrivare mai nelle orecchie dei legislatori ebraici. Peraltro all’epoca la Giudea viveva un periodo di grande prosperità e pace sociale: gli ultimi movimenti rivoluzionari risalgono infatti all’anno 6 quando si compie il passaggio all’amministrazione romana e riappariranno solo dopo il 54 con la nascita del partito zelota e dei suoi violenti sicari.
Lo stesso movimento battista nel quale i vangeli collocano Gesù, pur predicando un giudaismo radicale e ascetico, è caratterizzato dalla mitezza e dalla moderazione politica dei suoi adepti che partecipano tranquillamente alla vita pubblica e prestano servizio nell’esercito di Roma. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe descrive Giovanni come «un uomo buono e pietoso» a differenza di altri profeti contestatori che lo precedettero paragonati a «banditi».
Gesù al contrario di Giovanni non era un asceta, dopo il ritiro dei quaranta giorni nel deserto ritorna in Galilea tuffandosi in una predicazione itinerante e carismatica. È probabile che l’entrata nel tempio di Gerusalemme con la proverbiale cacciata dei mercanti e dei cambiavalute abbia attirato l’attenzione sul “nazareno” oltre la sua reale influenza, causandone l’arresto nella celebre “scena” dell’orto dei Getsemani. Per il tribunale ebraico, il Sinedrio, quel predicatore che pretende di essere il figlio di Dio e di fare miracoli è un eretico pazzoide, un marginal jewish come lo definì lo storico biblista americano John P.
Meier, ma soprattutto un bestemmiatore, e la blasfemia è un peccato gravissimo che va punito con la pena di morte. Su questo c’è unanimità assoluta nel tribunale ebraico.
Autoproclamarsi re equivaleva a un atto di ribellione nei confronti del potere imperiale di Roma. E la violazione della lex Iulia de maiestate portava spesso alla sentenza di morte tramite crocifissione, per questo il prefetto Ponzio Pilato non poteva ignorare quelle accuse e aveva il dovere interrogarlo anche se controvoglia e con l’intenzione di lasciar correre. Gesù non è un usurpatore, non ha alcuna intenzione di ambire alla sovranità terrestre, il suo “regno dei cieli” non compete con l’autorità di nessun Cesare con nessun potere mondano.
Sarebbe bastato ricordare a Pilato questa ovvietà per venire scagionato dal reato di lesa maestà, ma Gesù sceglie il silenzio che lo porta diritto dritto verso la croce. «Sei il re degli Giudei?», chiede il prefetto, aspettandosi una risposta negativa per archiviare il caso. «Sei tu che lo dici» è però la sola risposta che riceve.
Nel codice romano un imputato che rifiuta di difendersi è infatti considerato colpevole: «Non ci può essere nessun processo se l’accusato tace» scrive il maestro di retorica Quintiliano nella Institutio oratoria: restando zitto Gesù manda in corto circuito il suo processo per compiere il volere divino e diventare così il Cristo salvatore.
Senza dubbio fu un processo politico e molto speditivo, ma non un’iniziativa illegale o arbitraria, in ogni caso del tutto conforme alle norme giuridiche dell’epoca e alla complessità della procedura. Perché Gesù ha dovuto rispondere a due convocazioni distinte, una dei giudici ebrei e l’altra della giustizia romana? Se la sentenza di morte poteva essere comminata soltanto da un tribunale romano che senso aveva il passaggio davanti al Sinedrio? I vangeli ci dicono che il Sinedrio lo aveva condannato per reati di natura religiosa dopo una breve istruttoria, ma se non aveva diritto di far eseguire la pena capitale qual era il senso di una condanna che solo i romani potevano sostanziare?
Nella tradizione cristiana si pone molto l’accento sulla decisione del Sinedrio, ovvero sulla volontà degli ebrei di sbarazzarsi di quel profeta ingombrante, e sulla loro crudeltà (i maltrattamenti subiti da Gesù durante gli interrogatori) il che è andato ad alimentare nel corso dei secoli lo stereotipo odioso del popolo deicida.
Ma la competenza penale e quindi la decisione definitiva spettava ai funzionari dell’impero romano. Ossia al prefetto Pilato il quale, per il principio della cognitio extra ordinem, esercitava allo stesso tempo il ruolo di procuratore e di giudice, (altro che separazione delle carriere!). Pilato da parte sua è convinto dell’innocenza di Gesù e lo “rinvia” dall’eccentrico Erode Antipa, sovrano tetrarca del piccolo regno di Galilea sotto il protettorato di Roma, episodio citato soltanto dall’evangelista Luca. Erode (responsabile della condanna a morte di Giovanni Battista) chiede a Gesù se è in grado di compiere miracoli e di darne una dimostrazione, ma di fronte al silenzio, lo irride rispedendolo ancora una volta davanti Pilato, dimostrando scarso interesse per la sorte di quel bizzarro predicatore che di certo non riteneva particolarmente pericoloso.
A quel punto Pilato tenta un ultimo stratagemma: vuole farlo liberare tramite il cosiddetto “privilegio pasquale”, ovvero l’amnistia di un carcerato in prossimità della Pasqua, proponendo alla folla di scegliere tra Gesù e Barabba, un «prigioniero famoso» dicono i Vangeli, che però divergono sulla sua descrizione, «un ribelle» vicino al movimento zelota responsabile di tumulti politici, «un brigante», un «assassino». Ma tutti convergono sul fatto che la folla, aizzata dai sacerdoti del Sinderio e dai partiti religiosi più radicali, sceglie di far liberare Barabba, destinando Gesù al martirio tramite la crocifissione. A quel punto il prefetto cede alle pressioni popolari, ignorando il suggerimento della moglie Claudia Procula che lo invita comunque a liberare Gesù.
Nell’immaginario collettivo è passata l’immagine di Pilato che “si lava le mani” affermando di non essere responsabile della sorte che attende il prigioniero, emblema e antonomasia dell’ipocrisia e vigliaccheria umana. Episodio probabilmente inventato, però funzionale sacrificio di Cristo e alla sua ascensione divina. Ma qui l’analisi e l’anatomia dell’istruttoria contro Gesù, la catena di eventi che lo ha portato alla morte (conseguenza perfettamente evitabile in quel contesto) si fermano. E il racconto entra in una dimensione tutta teologica e deterministica per la quale il più celebre errore giudiziario della Storia era un evento necessario e che ha gettato le fondamenta per la salvezza dell’intero genere umano.
(Ripubblicazione dal numero del Dubbio del lunedì del 3 aprile 2023)