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«Davigo ha capito perfettamente che le dichiarazioni nei verbali erano false. In tre anni, dal 2017 al 2019, ho operato sull'arresto dell'avvocato Amara, quelli consegnati a Davigo erano verbali con affermazioni sgangherate in cui non combaciava nulla». Sebastiano Ardita, ex membro del Csm, è durissimo nel corso della sua testimonianza al processo a Brescia a Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia massonica Ungheria.
Parole, le sue, pronunciate in una giornata dal clima surreale, da resa dei conti, che ha visto oggi nello stesso palazzo di Giustizia due ex amici camminarsi vicino senza mai rivolgersi uno sguardo. E nella stessa stanza, devastata da due anni di gogna, c’era anche Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, indicata come «il corvo del Csm» e assolta a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato, sui verbali spediti anonimamente alla stampa e all’ex consigliere del Csm Nino Di Matteo, di voler insabbiare le indagini sulla loggia. Contrafatto ha scelto di non rispondere alle domande, dato il procedimento pendente a Roma per rivelazione d’ufficio e favoreggiamento, indagine per la quale la procura ha chiesto una proroga. E appena messo piede in aula è impallidita alla vista delle telecamere, che per mesi l’hanno inseguita per tormentarla. «Avevano trovato il capro espiatorio - ha sussurrato poco prima dell’inizio dell’udienza -. Chi me li ridà questi anni?».
L’attesa, però, era tutta per Ardita. Che ha di fatto attribuito all’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara - che lo ha falsamente indicato tra gli appartenenti alla presunta loggia Ungheria - un tentativo di vendetta nei suoi confronti, per le indagini e le attività investigative condotte su di lui «in tre anni e in tre funzioni diverse». Ovvero come aggiunto a Messina e Catania e anche al Csm, dove avrebbe voluto far audire il pm di Roma, Stefano Fava, che si era rivolto a lui proprio per problemi e ostacoli nel condurre indagini su Amara, al punto da voler presentare un esposto contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone. Ma non solo: secondo Ardita, Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle affermazioni di Amara ben prima di quando il pm Paolo Storari gli ha consegnato i verbali, ad aprile del 2020.
Dopo la grande amicizia che li aveva legati, i rapporti tra i due - fondatori di Autonomia & Indipendenza, frutto della scissione da Magistratura Indipendente - cambiarono drasticamente. Il contesto era quello dello scandalo dell’Hotel Champagne, a seguito del quale Davigo «assunse un atteggiamento non coerente con la nostra linea iniziale», decidendo di «non far toccare palla» alle correnti che avevano partecipato alle trame del Palamaragate. «Un’affermazione fuori dal mondo», perché la ratio del gruppo era quella di rimanere indipendenti. Ed escludere a priori qualcuno significava adeguarsi alle scelte degli altri, facendosi così «risucchiare» dal sistema che volevano combattere. «La divergenza era politica, ma divenne più dura quando iniziò a prendere le distanze da Stefano Fava», che Ardita avrebbe voluto coinvolgere nelle attività di A&I. «Davigo lo considerava un pezzo dello Champagne, cosa che non era», ha dichiarato. E ciò in virtù di quell’esposto che avrebbe colpito anche l’aggiunto Paolo Ielo, amico di Davigo e chiamato in causa da Fava per i rapporti professionali del fratello con Amara. Ardita avrebbe voluto sentire Fava in Commissione, scelta non gradita a Davigo, che dietro vi vedeva un complotto contro Ielo, considerato colpevole dei guai di Palamara.
Uno dei punti di non ritorno, per la fine della loro amicizia, fu la scelta del procuratore di Roma, da rifare dopo lo scandalo del Palamaragate. E Davigo tentò di imporre una scelta al gruppo: aderire alla linea di Area. «Io scelsi la linea dell’indipendenza», ha spiegato Ardita. Scelta condivisa, inizialmente, anche dagli altri membri del gruppo, Di Matteo - che «Davigo non stimava» -, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra, salvo poi essere rinnegata da questi ultimi. Inizialmente d’accordo con l’idea di votare l’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo per il dopo Pignatone, per poi virare su Michele Prestipino, così come voluto da Davigo. Alla riunione di febbraio 2020, che precedette il voto in plenum, Davigo parlò dunque «di forze oscure. Non mi guardava in faccia - ha spiegato Ardita -. Disse che il gruppo doveva rimanere unito e votare Prestipino. Mi affrontò e perse le staffe, chiedendomi perché non volessi farlo. Le mie erano ragioni tecniche. Così cominciò ad urlare e mi disse “mi nascondi qualcosa”».
In questo contesto fu Pepe a ricordare «quelli dello Champagne», che a suo dire «stavano continuando a fare cose». Un’affermazione preoccupante, secondo Ardita, che faceva intendere che sapessero qualcosa a lui non noto. «Davigo mi disse: se voti Creazzo stai con quelli dello Champagne. Che però avevano svolto attività contro Creazzo. E mi disse che sarei stato fuori dal gruppo, come se l’avesse creato lui. Quelli dello Champagne mi definivano un talebano da tenere sotto controllo. Come poteva credere a queste cose contrarie alla realtà, conoscendomi perfettamente?». Ardita non scoprì mai cosa volesse dire Davigo, nonostante l’invito a dirlo davanti a tutti. «Si limitò a rimproverarmi il fatto che Antonio Lepre (uno dei consiglieri presenti all’Hotel Champagne e dimissionario dopo lo scandalo, ndr) venne a trovarmi. Venne da me per dirmi che avevano sbagliato e lo fece quando ancora non sapevamo nemmeno della sua partecipazione alla riunione. Dopo lo scandalo dello Champagne non lo vidi più». Ed è stato in questo momento che il presidente Spanò ha citato Davigo, che in aula aveva affermato che tale incontro sarebbe avvenuto dopo che la vicenda era ormai diventata di dominio pubblico. «Sarebbe molto grave se l'avesse detto», ha dunque replicato Ardita. Suscitando la reazione di Davigo: «Ci sono i testimoni», che il pm catanese ha invitato a portare in aula. «Quella di Davigo fu una chiara minaccia. Era fuori di sé - ha raccontato l’ex consigliere del Csm -, tremava, urlava, era rosso. E le cose che diceva erano incomprensibili per me». Secondo Ardita - che è parte civile al processo - fu proprio quell’atteggiamento a condizionare il Csm. «Mi trovai isolato. Diverse persone mi parlavano a stento». A sapere della loggia, infatti, erano tutti i consiglieri con i quali Ardita aveva rapporti di stima. «Mi ha provocato molti danni - ha aggiunto -. Non avrei voluto che circolassero cose che non definirei nemmeno calunnie, ma pattumiere. Era una cosa per me incomprensibile». Nonostante questo, Ardita votò a favore della permanenza di Davigo al Csm, quando si discusse del suo pensionamento. «Da mesi non mi salutava e mi stava anche infamando davanti alla procura di Perugia. Ma a me hanno insegnato che è onestà morale non fare nulla per interesse proprio. Io ho agito per onestà intellettuale. E non ho cambiato idea. Davigo ha altri canoni di ragionamento: evidentemente vede le cose in base ai rapporti che ha con le persone».
Ardita ha infine smentito l’affermazione di Davigo secondo cui è normale che il Csm conosca atti coperti da segreto. Consapevolezza che deriva anche dal suo ruolo di ex presidente della prima Commissione, che si occupa dei procedimenti disciplinari. «Gli atti coperti da segreto non vengono mai a conoscenza del Csm. Il Consiglio - ha evidenziato - viene a conoscenza quando ci sono le iscrizioni. Ma ancora più spesso, quando le indagini sono delicate, solo alla fine delle indagini, con la proroga o con la chiusura. E comunque questo atto spetta alla procura generale. Se fossero arrivati dei verbali il comitato avrebbe dovuto chiudere il plico e rispedirlo indietro».
A parlare oggi in aula anche Giuseppe Marra, compagno di corrente di Davigo e Ardita e indagato per omessa denuncia e distruzione di corpo di reato a seguito della trasmissione degli atti da parte del gup di Roma che ha assolto Contrafatto. «Ho appreso la notizia dai giornali», ha puntualizzato l’ex consigliere del Csm, accompagnato dal difensore, Roberto Borgogno. Marra ha spiegato di aver saputo dei verbali l’8 giugno: una volta al Csm, l’ex pm di Mani Pulite - che si premurò di far spegnere i telefoni - gli mostrò una cartellina contenente dei fogli, senza timbro né sottoscrizioni, nei quali si parlava anche di Ardita. Un incontro breve, quello, che poi riprese a pranzo, dove Davigo raccontò della visita di Storari e dello stallo nelle indagini a Milano. «Capii che era un procedimento penale in fase di indagini. Era impossibile non capirlo», ha sottolineato. Ma Marra non pose il tema della segretezza al collega. E ciò perché «il Csm riceve quotidianamente atti di indagine coperti da segreto», in quanto «deve essere informato immediatamente se una procura sta indagando o abbia una notizia di reato su un magistrato». Ma mai, ha puntualizzato, era avvenuto tramite queste modalità, rese necessarie, a suo dire, dalla presenza di Ardita in prima Commissione. Marra chiese comunque a Davigo se la modalità seguita da Storari fosse corretta, dal momento che la circolare prevede l’invio di un plico riservato al Comitato di Presidenza. «Mi disse che comunque il segreto investigativo non è opponibile al Csm in base alle circolari e quindi nemmeno al singolo consigliere - ha sottolineato -. Inoltre aveva informato il procuratore generale e il vicepresidente, che a sua volta aveva informato il Capo dello Stato».
Ma perché Davigo informò proprio Marra? In virtù dei rapporti confidenziali con Ardita e proprio per tale motivo gli consigliò cautela. «Mi disse: fa attenzione alle comunicazioni con Ardita, perché non sappiamo se quello che c’è scritto è vero», ha raccontato. Sulla veridicità del racconto di Amara c’erano dubbi, ma Davigo «mi disse che sembrava inverosimile che una persona per nulla sprovveduta, com’era sulla carta Amara, si inventasse tutto rischiando di commettere una calunnia clamorosa nei confronti di persone importanti all’interno delle istituzioni. Impressione che io condivisi dal punto di vista logico». Nonostante la convinzione che la procedura seguita da Davigo fosse corretta, i verbali di Amara non finirono mai in prima commissione. Se non dopo l’inoltro della procura di Perugia, che nel frattempo stava indagando per corruzione Mancinetti. Inoltre, Ardita non sponsorizzò in alcun modo un altro dei nomi indicati da Amara - quello di Alessandro Centonze -, candidato a diventare membro della Scuola superiore della magistratura. «Dissi a Davigo che mi sembrava strano che se entrambi facevano parte di questa loggia massonica Ardita non si fosse mai avvicinato a me per sponsorizzarlo», ha evidenziato Marra. Che in ogni caso seguì il consiglio di Davigo, allontanandosi da Ardita, col quale ebbe anche motivi di scontro per questioni legate alla corrente. Prima di andare via dal Csm, Davigo portò la cartellina coi verbali di Amara nell’ufficio di Marra, comunicandoglielo a pranzo. «Non mi disse perché - ha spiegato Marra -, ma so che Davigo ha dichiarato che in precedenza mi aveva detto che qualora lui fosse stato dichiarato decaduto me le avrebbe lasciati qualora qualcuno del Comitato di presidenza ne avesse voluto copia. Ma questa frase non me la ricordo». Una circostanza strana, dal momento che era stato lo stesso Davigo a consegnare i verbali ad Ermini. Marra, in ogni caso, distrusse quei documenti poche settimane dopo. «Erano cose che preferivo non avere. Nessuno me le chiese e non ne potevo parlare con nessuno - ha evidenziato -. Erano documenti che scottavano. Ho cercato di starne fuori».