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ALFREDO MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO DI STATO PRESIDENZA CONSIGLIO DEI MINISTRI, CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA, FABIO PINELLI VICEPRESIDENTE CSM
«I magistrati non fanno politica, affermarlo significa mentire agli italiani e provare a lucrare consenso». È la frase chiave del comunicato con cui l’Anm reagisce alla requisitoria pronunciata il giorno prima da Alfredo Mantovano. Il sottosegretario alla Presidenza, lunedì mattina, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf, aveva accusato con toni durissimi la magistratura di muovere un attacco ormai sistematico alla «sovranità popolare», e di ergersi a «élite» osatile alla volontà degli elettori. Dov’è la verità? È nel paradosso della replica diffusa ieri dal “sindacato” delle toghe, “noi non facciamo politica”: il punto è che pochi giorni fa, sabato scorso, proprio l’Associazione magistrati ha respinto una mozione che avrebbe impedito a giudici e pm di fare campagna contro la separazione delle carriere al fianco dei partiti. L’intervento di Mantovano nasce anche da lì. Da una decisione, votata dal parlamentino delle toghe, che rende surreale la successiva rivendicazione d’imparzialità.


Con il voto dello scorso fine settimana, il “comitato direttivo centrale” dell’Anm ha deciso, a maggioranza, di non seguire la proposta della corrente moderata, “Magistratura indipendente”, che i limiti ai “comizi anti- Nordio” li avrebbe voluti prevedere. Il sottosegretario alla Presidenza ha reagito proprio alla intenzione di “fare politica” rivendicata, sabato scorso, dalle altre correnti. Fare politica, certo, su un obiettivo specifico: la vittoria del “No” al referendum sulla separazione delle carriere, che sarà indetto per inizio 2026. Ecco l’origine dello scontro. Che affonda le radici anche nelle contraddizioni richiamate da Mantovano alla cerimonia del Cnf. Ma la scintilla riguarda le regole d’ingaggio per la campagna referendaria. È lì il vero oggetto del contendere.
Al sottosegretario non deve aver fatto piacere che le correnti progressiste abbiano “mortificato” la proposta di autoregolamentazione avanzata da “Mi”, il gruppo nel quale lui stesso, Mantovano, si è riconosciuto finché ha esercitato funzioni giudiziarie. Non deve avergli fatto piacere, lo sberleffo rivolto da “Area”, da “Magistratura democratica” e anche dalla centrista (ma più in sintonia con la sinistra togata) “Unicost” al gruppo moderato. Anche perché proprio dalla corrente “di centrodestra” proviene quel neopresidente Anm, Cesare Parodi, con il quale Mantovano ha stabilito un canale di comunicazione privilegiato. Il sottosegretario di Stato, la stessa premier Giorgia Meloni e, naturalmente il guardasigilli Carlo Nordio vorrebbero mantenere con Parodi un rapporto quanto meno di reciproco rispetto.
Ma appunto, la mozione favorevole ai comizi delle toghe contro la separazione delle carriere ha messo in minoranza il leader dialogante. È chiaro che Mantovano aveva altre motivazioni, a sorreggere la propria “avvelenata”, a cominciare dalle pronunce con cui i giudici hanno “bloccato” il modello Albania, e dalla clamorosa esclusione per via giudiziaria di Marine Le Pen dalle presidenziali francesi. Ma pesa, evidentemente, lo scontro sulla campagna referendaria, che la decisione del parlamentino togato finirà per trasformare in una sfida politica tra potere legislativo e potere giudiziario.
Nelle stesse ore in cui Mantovano interveniva alla cerimonia del Consiglio nazionale forense, un laico del Csm eletto su indicazione di Fratelli d’Italia, Felice Giuffré, provava a depositare lui una proposta di circolare a Palazzo Bachelet (come illustrato in dettaglio da altro servizio, nda). Il consigliere di centrodestra vorrebbe regolare in termini disciplinari la partecipazione di giudici e pm ai comizi anti-riforma in base agli stessi princìpi a cui Magistratura indipendente aveva fatto appello sul piano deontologico (l’Anm non ha poteri disciplinari, ovviamente, ma adotta provvedimenti nei confronti dei colleghi che violano il codice interno).
Mantovano, Meloni e Nordio, più che confidare in un esito positivo dell’iniziativa di Giuffré, non possono. Ma certo ora rischia di svolgersi in un clima surreale anche l’incontro di martedì prossimo fra i veritici dell’Associazione magistrati e il guardasigilli, in programma a via Arenula. Si dovrebbe parlare di efficienza della giustizia, ma ci si guarderà con grande freddezza.
MAGISTRATURA ONORARIA, SÌ DEFINITIVO ALLA RIFORMA
Alla maggioranza di governo non resta che serrare i ranghi, rinunciare ad altre iniziative con cui la campagna referendaria finirebbe solo per complicarsi (vedi lo stop alla giornata sulle vittime degli errori giudiziari, di cui si riferisce in un ulteriore articolo, nda) e, al limite, darsi da fare proprio sulla macchina giudiziaria. Ieri è arrivato il via libera definitivo, dell’aula di Palazzo Madama, alla riforma della magistratura onoraria: 75 sì, 54 astenuti (tutti dell’opposizione) e, udite udite, nessun voto contrario.
Un passo importante per rendere degne di un Paese civile le condizioni di lavoro per chi tiene in piedi da decenni il sistema. «Il provvedimento, collegato alla Manovra, riforma il regime giuridico, economico e previdenziale dei magistrati onorari e risponde anche a rilievi dell’Ue sull’infrazione 2016/ 4081 riguardo ai diritti lavorativi dei magistrati», recita lo scarno comunicato che accompagna l’approvazione.
Più articolata la nota del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, anche lui di FdI: si mette fine, dice, «a decenni di attese», e si restituisce «dignità, diritti e tutele a migliaia di servitori dello Stato. Abbiamo garantito stabilizzazione sino all’età pensionabile, tutele previdenziali e assistenziali, malattia, ferie, tfr e un giusto inquadramento retributivo. Un risultato che arriva al termine di un iter concluso in soli nove mesi», rivendica Delmastro. Sono i soli argomenti a cui, in effetti, il governo può aggrapparsi per vincere il referendum sulle “carriere”. Che l’Anm di sicuro affronterà da vera forza politica, e non certo come un ordine dello Stato estraneo alle contese di potere.