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Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna
A distanza di circa duecento anni, la “Storia della Colonna infame” di Alessandro Manzoni continua a essere attuale. Errori da parte di chi giudica, abusi e pregiudizi si sono verificati anche dopo il capolavoro manzoniano, fino ai nostri giorni. Cambiano le epoche, ma alcuni strumenti per stritolare la dignità umana esistono ancora. Ne abbiamo parlato con Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, autore del libro “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino).
Professor Manes, due secoli fa Alessandro Manzoni, nella “Storia della Colonna infame”, affrontò il tema dell’errore giudiziario e dell’abuso di potere. La storia insegna tanto o niente?
Il saggio di Manzoni è un’opera straordinaria per molte ragioni, ed è un “classico” perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati: anzitutto, il rischio sempre vivo che un innocente sia condannato, come appunto capitò in sorte ai due protagonisti, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati di essere “untori” all’epoca della peste del 1630 e per questo ingiustamente sottoposti a tortura e quindi condannati a morte. La storia insegna tanto, ma purtroppo non ha memoria.
A cosa si riferisce?
La storia insegna tanto perché tutta l’evoluzione del diritto penale, sostanziale e processuale, non è altro se non la sedimentazione secolare di errori giudiziari, null’altro che una “trama secolare di disavventure”, parafrasando Borges. Da questi “errori” e “disavventure”, e dall’urgenza di evitare il loro ripetersi, sono stati progressivamente generati i principi e le garanzie in materia penale, prima fra tutte la garanzia primordiale della presunzione di innocenza. Diritti e garanzie sono “antidoti” generati da errori (giudiziari), come recita il titolo di un fortunato saggio di Alan Dershowitz, “Rights from wrongs”. Però, purtroppo, la storia non ha memoria, o meglio, nessuna esperienza della memoria è davvero in grado di sterilizzare il ripetersi di errori giudiziari, che restano tristemente attuali, per le più disparate ragioni, come mette bene in luce una preziosa recente ricerca guidata dal professor Luca Luparia, (“L’errore giudiziario”, Milano, 2021, ndr), “un viaggio al termine della giustizia” alla ricerca di “anticorpi per la condanna dell’innocente”. Questa ricerca deve ancora compiere molti passi avanti, anche nei sistemi di democrazia matura, come testimonia dolorosamente l’attività dell’Innocence project negli Usa sulle più disparate “wrongful convictions”. Del resto, lo stesso Manzoni ammoniva che «la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura…non furor purtroppo particolari a un epoca», ma sono esperienze tristemente vive in ogni tempo e in ogni luogo.
Manzoni mise in guardia i suoi lettori sui danni che può provocare la giustizia ingiusta con il “sacrificio” di persone innocenti anche per compiacere la folla. Una situazione che si è verificata anche nei giorni nostri?
Credo sia difficile negare l’influenza che l’opinione pubblica esercita sul giudizio, anche se non ci sono rilevazione empiriche che possano dimostrarlo. Oggi come ieri, i giudici che non seguano, con la loro decisione, un diffuso pregiudizio colpevolista, possono avvertire «il timor di mancare a un’aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle», proprio come scriveva Manzoni. Del resto, quando si crea un determinato “orizzonte di attesa” nel pubblico, il rischio è che chi giudica si senta chiamato non a giudicare bensì a “dire da che parte sta”, se sta dalla parte dell’opinione pubblica, o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E questo rischia di contaminare, di fatto, l’imparzialità del giudicante. Quanto più forte e massiva è questa influenza, tanto più coraggio serve per assolvere, perché la decisione di assoluzione inevitabilmente delude le aspettative delle presunte vittime, con le quali l’opinione pubblica tende ad identificarsi: le parti civili, infatti, non chiedono giustizia, ma chiedono condanna.
Dalla colonna infame alla gogna e alla giustizia mediatica. È cambiato lo strumento per spettacolarizzare certi metodi e per presentare all’opinione pubblica il “mostro”?
È cambiato, e molto, assumendo dimensioni ben più pervasive e contundenti, vista la enorme capacità diffusiva che l’informazione on line e i mass media oggi hanno, anche nel martellante rimpallo con i social network e con i mezzi più informali di veicolazione delle notizie nell’universo apocrifo dell’infosfera. Di fatto, se una vicenda penale entra nel circuito mediatico, un semplice “indagato” viene colpito da una “lettera scarlatta” che lo perseguiterà per sempre, una sorta di “pena della vergogna” (shame sanction) che implica la degradazione pubblica dell’individuo, e che non sarà mai cancellata anche dopo una eventuale sentenza di assoluzione, visto che la perpetuazione della “esposizione pubblica”, la public exposure che ha sostituito la gogna medievale, sarà di regola assicurata dalla conservazione della notizia nello sconfinato campo dell’infosfera, con buona pace del diritto all’oblio.
Il tribunale mediatico non assolve mai?
Il tribunale mediatico non assolve mai, o mai davvero del tutto. Nella pubblica opinione resta insinuato il “sospetto”, perché, come si dice,“if there’s smoke there’s fire”, e nel migliore dei casi residua un giudizio morale negativo o un “etichettamento” negativo anche solo per essere stato coinvolto e travolto dallo scandalo, a prescindere dall’esito del processo. Aveva ragione Sciascia: tutto è non cadere nell’ingranaggio, ma «per come va l’innocenza, tutti potremmo cadere nell’ingranaggio».
Quali sono gli strumenti e i soggetti in grado di attenuare – per non dire neutralizzare - la forza dirompente della giustizia mediatica?
Non ci sono strumenti risolutivi, purtroppo. Ma la deontologia di ogni operatore può fare molto, sia sul versante giudiziario, e in specie degli organi inquirenti e degli operatori di polizia giudiziaria, sia sul versante dell’informazione. La neutralità nel presentare la notizia, l’attenzione alla presunzione di innocenza nel dar spazio anche alla versione della difesa, il rispetto per la dignità della persona, nel non divulgare dati sensibili dell’indagato-imputato come dei terzi “coinvolti”, sono tutti accorgimenti che possono ridurre l’impatto del problema. Ma è un problema culturale, e andrebbe affrontato anzitutto su quel piano: con una massiva campagna di “educazione civica”, sin dalle scuole superiori, che sappia spiegare e trasmettere i valori della civiltà del diritto, le ragioni alla base dei principi e delle garanzie costituzionali in materia di giustizia, spiegate anche attraverso quelle terribili esperienze di ingiustizia che Manzoni, nel suo fulminante saggio, ha consegnato a noi tutti ed alla storia.