La materia della prevenzione, lo abbiamo scritto più volte, è un sistema di eccezione, nel quale tutte o quasi le regole, che consentono e limitano la pretesa sanzionatoria pubblica, subiscono una deroga prasseologica e teleologicamente orientata alla autogiustificazione.

Con il tempo, questa tendenza anticonformativa della legislazione di prevenzione e della sua interpretazione nomofilattica ha creato un effetto non solo dicotomizzante, ma di costante divergenza rispetto ai costituti del diritto penale liberale e del giusto processo accusatorio.

Irretroattività in malam partem, retroattività in bonam partem, divieto di analogia, ne bis in idem, riserva di giurisdizione, riserva di Legge, accusatorietà, immediatezza, pienezza del contraddittorio, terzietà del Giudice sono principi che non albergano la prevenzione, o sono presenti in forme dimidiate se non del tutto evanescenti.
Così che i due sistemi sanzionatori non hanno ormai alcun punto di comunanza, visto che persino per riconoscere forza di giudicato “prevenzionale” alle sentenze penali di assoluzione dovrà intervenire – si spera – la CEDU.

Ma anche i rapporti con la giurisprudenza convenzionale non seguono le ordinarie scansioni gerarchiche, con le Corti nazionali che, in più occasioni, hanno sterilizzato i richiami della Corte Europea.

Nota è la vicenda De Tommaso/Italia, quando i Giudici europei denunciarono il difetto di tassatività della norma in tema di presupposti per la dichiarazione di pericolosità generica (art. 1 D.L.vo 159/11, commi a e b) e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 24/19, ebbe modo di valorizzare la funzione tassativizzante “concorrente” della giurisprudenza. Il Giudice delle Leggi, con la tecnica argomentativa del “sì, ma...”, tipica degli stati di eccezione, affermò, in quella occasione, che la Legge era di qualità insufficiente, ma il difetto era stato sanato dalla nomofilachia, a decorrere dalle Ss.Uu. Spinelli in poi.

Da tale arresto, affermare che l’affinamento giurisprudenziale è opponibile, anche retroattivamente rispetto alla sua formazione, ai consociati (e, cioè, che il “precedente” non solo “non ammette ignoranza”, ma addirittura impone preveggenza) è stato escamotage utile alla sopravvivenza del sistema e, difatti, subito percorso dalla giurisprudenza nazionale.

La sentenza De Tommaso, dunque, non ha dato quasi alcun frutto, a dimostrazione che la giurisdizione interna e quella sovranazionale sono poste su orbite ellittiche, nelle quali ad ogni temporaneo avvicinamento corrisponde un repentino allontanamento.

Di recente, però, abbiamo avuto modo di constatare che la Corte EDU non è una “stella fissa” e che le due orbite si incrociano.

Con due recenti sentenze (n. 45280 e n. 45849 del 30.10.2024), la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, ha ritenuto che al procedimento di prevenzione da pericolosità generica sia applicabile l’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, evidenziando significativi aspetti di parallelismo tra procedimento di prevenzione e processo penale, con la inevitabile necessità di applicare al primo le garanzie ed i principi convenzionali previsti per il secondo.

I due ricorsi riguardavano temi diversi, ovvero i presupposti di pericolosità generica il primo, i diritti del terzo interessato il secondo.

Nella prima sentenza, la Corte ha ritenuto che il Giudice della prevenzione, verificando la pericolosità generica di un soggetto proposto per l’applicazione di misura di prevenzione personale, non possa ritenere rilevanti, in base al principio della valutazione autonoma, fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione: “Alla stregua della interpretazione tassativizzante dell’art. 1, comma 1, lett. b), d. lgs. n. 159 cit. risulta non solo che l’accusa nel procedimento penale e quella nel procedimento di prevenzione si fondano sulla medesima contestazione in fatto, in quanto entrambi procedimenti presuppongono, in via diretta o indiretta, la responsabilità penale relativa ad un reato ma che, nel caso in cui proposto sia stato sottoposto a procedimento penale, la “condanna per delitto” costituisce il presupposto stesso dell’applicazione della misura di prevenzione e, applicando lo stabile principio della Corte EDU ne deriva che una volta che una sentenza di assoluzione è diventata definitiva – anche se si trattasse di assoluzione con il beneficio del dubbio – non è solo lesivo del principio di non contraddizione dell’ordinamento assumere un fatto, negato dalla sentenza di assoluzione, come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità ma che è incompatibile con il principio di presunzione di innocenza, come innanzi ricostruito, che decisioni giudiziarie successive disconoscano, deliberatamente, il precedente proscioglimento dell’accusato”.

Osserva ancora la sentenza che il Giudice della prevenzione ha l’obbligo di basare la decisione non su meri sospetti, ma sull’accertamento e sulla valutazione oggettiva dei fatti rappresentati dalle parti. Applicando questi principi, la Cassazione ha ritenuto che la verifica della pericolosità generica di un soggetto non possa dunque fondarsi su fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione.

A tale conclusione, la Corte giunge nel solco di quella giurisprudenza europea (un avvicinamento, dunque), secondo la quale nessuna autorità pubblica può dichiarare una persona colpevole di un reato prima che la sua colpevolezza sia stata accertata da un Tribunale e, una volta intervenuta una dichiarazione di non colpevolezza in ambito penale, ciò impedisce la celebrazione di qualsiasi altro procedimento avente ad oggetto gli stessi fatti posti alla base del procedimento penale nel cui ambito il soggetto ha rivestito la qualità di accusato.

Ancora più rilevante, poi, è che la Cassazione abbia ritenuto illegittimo sottoporre il giudizio di prevenzione ad una disciplina individuata in via interpretativa e in assenza di precisi indici normativi, che si pongano in contrasto con l’art. 6 della CEDU in quanto norma interposta in relazione all’art. 117 della Costituzione. Infatti, con la seconda delle segnalate sentenze, occupandosi delle facoltà che devono essere riconosciute al terzo nel procedimento di prevenzione, la Corte richiama nuovamente l’art. 6§2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e afferma che, tenendo conto proprio dell'interpretazione ormai consolidata della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, “il procedimento di prevenzione costituisce un procedimento giurisdizionale, sottoposto al rispetto di principi fondamentali del processo penale e qualificato come tale dall'intervento decisionale di autorità giudicante terza rispetto alle parti, dalla contestazione di una forma specifica di pericolosità e dalla formulazione di precisa "proposta" nel rispetto dei principi di legalità e tassatività della stessa e delle misure da applicarsi, dal contraddittorio in tutte le fasi procedimentali, dall'inviolabilità del diritto di difesa, dal doppio grado di giurisdizione di merito e dalla possibilità di esperire mezzi d'impugnazione per ottenere la revisione della decisione denunciata come ingiusta o illegittima”.

L'autonomia del procedimento di prevenzione, dunque, non ammette deroga di forme e principi rispetto ai costituti del giusto processo di cui all'art. 111 Costituzione, in materia di chiarezza e precisione della contestazione, terzietà del giudice, diritto alla prova, effettività del contraddittorio e del doppio grado di giudizio, accusatorietà, ripartizione degli oneri probatori.

Chiosa la sentenza che “la deroga ai principi del giusto processo non può ricavarsi per effetto di opzioni interpretative non supportate da chiara previsione normativa e che si pongono in contrasto, sia con l'art. 6 CEDU, in quanto norma interposta in relazione all'art. 117 Cost., e, quindi, del principio del contraddittorio che rappresenta anche il paradigma di riferimento nella ricostruzione del significato e nella finalità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, sia con i pronunciamenti della giurisprudenza della Corte EDU e di quella costituzionale in materia”.

Queste importanti affermazioni di diritto potrebbero segnare la presa d’atto della insostenibile e non ulteriormente giustificabile asistematicità della prevenzione ed avviare un rientro di tale sistema nell'alveo delle garanzie minime del giusto processo.

Se non fosse che, questa volta, a fuggire lungo un’orbita ellittica è la Corte Europea.

Con la recente sentenza della Prima Sezione, nel caso “Garofalo/Italia”, la CEDU ha ritenuto che la confisca di prevenzione non può essere considerata una pena ai sensi dell’art. 7 della Convenzione e, conseguentemente, che il relativo procedimento non comporti una “accusa penale” ai sensi dell’art. 6 della medesima norma e sia dunque sottratto alle garanzie ivi previste.
E di questo abbiamo già scritto.
Quello che qui occorre ribadire è che tale conclusione è in aperto contrasto con precedenti orientamenti della Corte Europea, che ha riconosciuto l’applicabilità al procedimento di prevenzione delle disposizioni di cui all'art. 6 della Convenzione ed ha osservato che “tale legislazione è stata ritenuta compatibile con le norme convenzionali proprio in ragione della sufficiente garanzia di effettività del contraddittorio e del diritto di difesa che assicura, a ragione dell'essere il proposto rappresentato da un avvocato di fiducia; del riconoscimento della facoltà di partecipare alla procedura e presentare memorie ed i mezzi di prova necessari per tutelare i suoi interessi in contraddittorio con la parte pubblica dinanzi a tre organi di giudizio successivi”.

Ancora, la Corte EDU ha, in numerose sentenze, affermato che il principio della presunzione di innocenza figura tra gli elementi del processo equo e non si limita ad una semplice garanzia procedurale, ma comporta per il giudice l'obbligo di basare la decisione non su meri sospetti, ma sull’accertamento e sulla valutazione oggettiva dei fatti rappresentati dalle parti.
L’art. 6 della Convenzione Europea, infatti come è noto, attiene a qualsiasi accusa di un reato, anche estranea all’ambito penale e persino ad un procedimento giurisdizionale, e non si limita ad una semplice garanzia procedurale, ma esige il rispetto dei canoni di un processo equo esprimendo l’impossibilità di ritenere una persona colpevole prima che la sua colpevolezza sia stata accertata, legalmente, da un Tribunale.
Principio che incrocia, sul piano statico, la presunzione di innocenza e, sul piano dinamico, il diritto al contraddittorio pieno, la prova senza limitazioni, la corretta ripartizione dell'onere probatorio, la limitazione del ricorso alle presunzioni legali, il diritto di non autoincriminarsi, la piena revisione della decisione nei gradi di impugnazione, la stabilità del giudicato, il divieto di retroattiva, il divieto di analogia.

Proprio queste pronunce convenzionali avevano esercitato la propria attrazione gravitazionale nei confronti della giurisprudenza di legittimità, che si era avvicinata alle posizioni della CEDU con le recenti decisioni della Sesta Sezione Penale della Cassazione.

Ma ora è la Corte Europea, come dicevamo, che si è posta su di una direttrice divergente, scegliendo di non essere più stella e di orbitare, invece, intorno alla “ragione pratica” che sta alla base della sopravvivenza del sistema di prevenzione.

Osservatorio “Misure patrimoniali e di prevenzione” dell’Unione Camere penali