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Chi lo sa se è finita così, se bastano quelle quattro date a chiudere la vicenda che ha visto protagonisti la giornalista italiana Cecilia Sala e l’ingegnare svizzero-iraniano Mohammed Abedini. Chi lo sa se tutta quanta questa storia, con il triangolo geopolitico e giudiziario che parte dagli Stati Uniti e attraversando l’Italia va a finire in Iran, può restare chiusa in quelle quattro date.
La prima, il 16 dicembre 2024, quando un signore di 38 anni in transito verso la Svizzera viene fermato all’aeroporto di Malpensa e ammanettato dalla polizia italiana. È un ingegnere iraniano, titolare di una società svizzera, ricercato dagli Usa per reati gravissimi. È accusato di aver sostenuto i pasdaran della Guardia della rivoluzione, un gruppo terroristico secondo le leggi americane, anche se non per la normativa italiana e europea. Mohammed Abedini è anche sospettato di aver indirettamente contribuito a un attentato in Giordania in cui morirono tre soldati americani, colpiti con droni costruiti con tecnologie di cui l’ingegnere, insieme a un collega arrestato in Usa, era accusato di aver trafficato con l’Iran.
La seconda data, tre giorni dopo, è quella del fermo di Cecilia Strada a Teheran, senza una precisa accusa. La giornalista italiana è ostaggio della teocrazia iraniana. Uno stretto legame tra i due episodi, fatto di pericolosi ricatti, che verrà sciolto d’improvviso con il viaggio di Giorgia Meloni in visita a Mar-a-Lago, in Florida, dal presidente eletto Donald Trump. Cui seguono le altre due date fondamentali, lo scorso 8 gennaio con la liberazione e il ritorno a casa di Cecilia Sala, e poi la domenica successiva, con l’intervento del ministro Nordio che ha sbloccato e azzerato la richiesta di estradizione, restituendo la libertà a Mohammed Abedini, sbarcato quattro ore dopo a Teheran.
Impeccabile dal punto di vista tecnico-giuridico l’intervento del guardasigilli in tema di estradizioni, poiché la legge gli consente di intervenire in qualunque momento dell’inchiesta, o anche al termine di tre gradi di giudizio, per chiedere, o meglio imporre, ai giudici la revoca del provvedimento di custodia. Il che comporta l’immediata scarcerazione dell’arrestato e di conseguenza anche la caduta della procedura di estradizione.
Inoltre, nel caso specifico, sarebbe comunque stato difficile per l’Italia la consegna di Abedini agli Usa in quanto per l’incriminazione principale mancava il requisito della reciprocità, cioè della doppia imputazione. Infatti il gruppo che l'ingegnere iraniano avrebbe aiutato è considerato terroristico oltre oceano ma non in terra d’Europa e specificamente in Italia. E per quel che riguardava l’attentato in Giordania non vi era nessuna prova del coinvolgimento diretto di Mohammed Abedini.
Naturalmente stiamo però parlando di una vicenda principalmente politica, in cui gli aspetti giudiziari hanno fatto solo da contorno. Per quel che riguarda Cecilia Sala, non è stata mai neppure formulata nei suoi confronti una specifica accusa, e stiamo parlando di un Paese in cui, al di là del preteso riformismo del governo, è sempre il regime teocratico di Khamenei a decidere, tra un’impiccagione e l’altra - l’ultima delle quali è quella prevista nei confronti dell’attivista curda Pakhshan Azizi -, imputazioni, carcere e condanne.
La politica degli ostaggi inoltre funziona sempre, specialmente per Paesi come l’Italia. Questa volta inoltre, una fortunata e fortunosa coincidenza ha dato una mano alla brillante iniziativa del governo Meloni. L’urgenza di liberare Cecilia Sala è caduta nel bel mezzo dei traslochi tra un Presidente e l’altro negli Stati Uniti. Così Joe Biden ha potuto chiudere un occhio, costretto anche a rinviare il previsto viaggio in Italia a causa della tragedia di fuoco che sta colpendo la California, e si è limitato a una telefonata cordiale con la premier italiana, durante la quale ha ricordato “la forza duratura dei rapporti Italia-Usa”.
E Donald Trump ha potuto dare una sorta di silenzio-assenso alla rinuncia all’estradizione di Abedini perché tutto sommato la cosa non lo riguardava, in quanto il suo insediamento avverrà solo il prossimo 20 gennaio. Del resto i magistrati statunitensi non avevano ancora inviato ai colleghi italiani le prove a sostegno delle loro accuse. Così finisce con il cavarsela anche il ministro Nordio, su cui pendeva quello sgarbo di un anno fa nei confronti dei giudici dell’appello di Milano per l’affare di Artem Uss, l’imprenditore russo evaso dai domiciliari con braccialetto elettronico.
Certamente le toghe non hanno dimenticato il fatto che il guardasigilli aveva nei loro confronti prima inviato un’ispezione e poi fatto aprire un procedimento disciplinare, pur se finito in nulla. Nessuno pensa che il prossimo 15 gennaio, data in cui era stata fissata l’udienza per decidere sugli eventuali domiciliari per Abedini, i magistrati avrebbero voluto vendicarsi di Nordio con una decisione negativa. Ma di certo non sarebbero stati invogliati a cavargli le castagne dal fuoco, visto anche il parere negativo della procura generale. Così ha deciso lui e il problema non si è neppure posto.
Tutti contenti e salvi, dunque? Caso chiuso? Vedremo, anche perché sono rimasti qui in Italia i contenuti del trolley dell’ingegnare svizzero-iraniano, cioè telefoni, computer e altri dispositivi elettronici. E forse a qualcuno, magari a tutti i protagonisti del triangolo che parte dagli Usa, attraversa l’Italia e si spinge fino all’Iran, quel materiale potrebbe interessare.